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Atti capitolo 4 Stampa

Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi: assistiamo al primo scontro tra i capi del sinedrio e gli apostoli.
Gli apostoli rimangono molto rispettosi, non hanno ancora l'idea di allontanarsi dalla religione giudaica.
Gli apostoli vogliono affermare la verità: Gesù.
Non vogliono andare contro. Esperienza della forza che viene dalo Spirito Santo.
L'accusa che viene mossa loro è molto debole: hanno guarito una persona, in un giorno lavorativo pergiunta. Il popolo è con loro.
Gli apostoli non nascondono nulla, dicono con chiarezza: voi avete ucciso l'autore della vita. La prima parte della verità è un'accusa. La dicono conoscendo le conseguenze.
Anche Gesù dicendo la verità si "autocondannò" davanti al sinedrio "tu l'hai detto: sono il Figlio di Dio"
Dobbiamo avere la forza anche di accusare.
Il processo descritto in questo capitolo è molto importante perchè ci sono tutti i capi (quelli che pensavano che uccidendo Gesù avrebbero posto fine al suo movimento) preoccupati dell'annuncio degli Apostoli: la morte di Gesù non è la fine ma l'inizio di tutto.
Nel processo viene affermato che Gesù è l'unico che dà salvezza al mondo. "Non possiamo non parlare di ciò che abbiamo visto e sentito" è il cuore dell'annuncio missionario. Un cristiano che non annuncia snatura la sua vocazione.
L'unica differenza tra la prima comunità cristiana e la nostra è che i primi hanno visto e sentito, noi dobbiamo continuare ad annunciare le opere che Dio compie nella nostra vita. È importante che ognuno continui a vedere e sentire come Dio opera nella propria vita. Non si può annunciare se non ciò che si è udito e sentito.

 
Atti capitolo 3 Stampa

Atti degli Apostoli, Capitolo 3

Da S. Fausti "Lettera a Sila"
Povertà: condizione per l'annuncio
- La povertà per l'annunciatore del Vangelo non è un consiglio. È un ordine del Signore Gesù, che ci ha inviati col comando di non portare nulla con noi, né pane, né bisaccia, né denaro (Mc 6, 8). Solo quando siamo deboli, siamo forti della sua stessa forza (2Cor 12,10), che è la stoltezza e la debolezza della croce (1Cor 1,18). Perché la forza di Dio è l'amore, che nulla possiede, neanche se stesso, ma tutto dà, fino al dono di sé. Dio non possiede neanche il proprio essere. L'essere del Padre è l'essere tutto del Figlio e viceversa, e l'essere dello Spirito è l'essere l'amore e il dono totale di ambedue. Inoltre l'essere suo in sé è l'essere tutto fuori di sé in nostro favore. Grande mistero, che fa della povertà la più grande ricchezza sua e nostra!
La povertà rende l'apostolo bisognoso di accoglienza. Così sperimenta in prima persona la realtà che annuncia, quella del figlio che è bisogno di essere accolto, e fa sperimentare a chi lo accoglie la misericordia del Padre, che tutti accoglie.
Uno non è ciò che ha, ma ciò che dà. Chi ha cose, dà cose; chi ha nulla, dà se stesso ed è se stesso. Questa è la verità profonda che la povertà testimonia: un Dio amore.
La povertà è condivisione e solidarietà, unica medicina alla solitudine e all' egoismo.
La povertà non ti permette di dominare. Ti costringe a servire e ti rende umile, facendoti simile a colui che per amore si è fatto servo di tutti.
La povertà ti libera dagli idoli del mondo - l'avere, il potere e l'apparire.
La povertà ti fa porre la fiducia nel Padre. E la madre che ti genera suo figlio.
La povertà ti associa alla croce di Cristo, che con essa ha vinto il nemico.
Stai attento a quanto ti dico: non è la tua testimonianza di povertà che rende efficace e credibile la Parola. Ma la tua controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile agli occhi di chi ti ascolta annunciarla con la bocca e ti vede smentirla con la vita.
La povertà è il tuo bastone. Strumento primordiale con cui raggiungi ciò che non è a portata della tua mano, questa piccola cosa di legno ti è data come scettro regale. Con esso Mosè aprì il Mare per salvare il popolo e lo richiuse per affogare il nemico; con esso fece scaturire acqua dalla roccia nel deserto. E figura della croce, il nulla con il quale il Signore ha trionfato del male e ci ha dissetati della sua vita.
Quando avrai mezzi potenti, il Signore non ti concederà mai di raggiungere il fine apostolico. Ti dirà, come a Gedeone: «La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle tue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato» (Gdc 7,2).
Come al giovane ricco, l'unica cosa che ti manca e di cui hai bisogno, è paradossalmente proprio ciò che hai e di cui non ti vuoi liberare (Mc 10,21).
Dice Gesù: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).
Se non hai questo bastone, non sei con lui. E chi non è con lui, è contro di lui; e chi non raccoglie con lui, disperde (Lc 11,23).
L'unico mezzo onnipotente che hai è la parola della croce, che non devi vanificare con l'uso di altri mezzi di sapienza e di potere (1Cor 1,17 s.).
Così annuncerai con potenza - la potenza della sola fede - il nome del Signore Gesù, salvatore tuo e di tutti.
L'avevano capito bene Pietro e Giovanni, mentre salivano al tempio per la preghiera. Al povero storpio in attesa di elemosina, Pietro disse: «Guarda verso di noi». Se avessimo oro e argento, te lo daremmo; se ne avessimo tanto, fonderemmo un istituto per storpi; ma, siccome «non possiedo né argento, né oro, ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina» (At 3,4ss.).
La povertà e l'annuncio del suo nome hanno il potere di cambiare la condizione dell'uomo e di farlo entrare danzando e lodando nella casa di Dio (At 3,1-8).
Ti ripeto di non far dipendere 1'efficacia dell' annuncio dai mezzi di efficienza. Questi impediscono a Dio di agire, come l'armatura di Saul impediva a Davide di camminare: «Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato» (1Sam 17,39).
In spirito di profezia vedo, ma confusamente, come un carro di fuoco e di tuono, veloce come il turbine, simile a quello che rapì Elia, che proprio così finì il suo ministero (2Re 2,11 ss.)! Potrà giovare per essere prima e in più posti. Ma a fare che? Questo è il problema! Speriamo che la rapidità della nostra azione non sia in anticipo su Dio, in modo che, invece di essere collaboratori suoi, sostituiamo la sua con la nostra opera - finendo così anche noi il nostro ministero.
Certamente questo carro di fuoco non favorirà la solidarietà. Susciterà anzi invidia e malcontento in tutti quelli che grideranno invano: «Padre mio, padre mio, prendi anche me sul tuo cocchio» (cf. 2 Re 2,12).
Sarai beato se ti accontenterai del bastone e dei sandali (Mc 6, 8 s.), tenuta pasquale di chi esce dalla schiavitù d'Egitto alla libertà dei figli (Es 12,11). Se vuoi, puoi rinunciare anche al bastone, dato che già hai la croce, che sostiene Dio stesso; puoi rinunciare anche ai sandali e andare scalzo come lo schiavo, dato che sei servo della Parola (Lc 1,2), di cui sei debitore a tutti (Rm 1,14). E come il tuo pane è Cristo, vita tua (Fil 1,21), così sia egli anche il tuo unico vestito, la bisaccia del tuo sostentamento e il denaro che ti media tutto (cf. Mc 6,8 s.). In lui infatti sono nascosti tutti i tesori e nella sua debolezza abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,3.9).

Da "xaverianas.com" (sito delle Missionarie di Maria Saveriane)

Il frutto

"Presolo per la mano destra, lo sollevò": il Figlio di Dio è venuto fra noi per sollevarci, per rimetterci in piedi. Colui che incontra il fratello e la sorella nel suo nome, non può non sollevarlo, non in forza sua, ma di Gesù. Chi fa il male in genere non è orgoglioso di farlo, anzi, è estremamente triste, come un prigioniero senza uscita. Il Cristo che trasuda dal nostro modo d'incontrare, di ascoltare, di parlare, di soccorrere è una forza che rimette in piedi, anche quando materialmente la situazione non cambia, come nel caso di una malattia. Chi scopre che Dio gli ha dato ogni benedizione in Cristo, che per renderlo figlio egli ha dato il suo Figlio, che "dove ha abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia" (Rom 5,20), come non potrebbe, qualunque sia la sua situazione, essere rimesso in piedi, colmato di gioia e pace indistruttibili? Guarito, l'uomo non resta solo: si unisce a dei fratelli per lodare Dio e sta con loro: la missione conduce a far parte di una comunità, germe e inizio della grande famiglia dei figli di Dio.

Ma il destinatario non è il solo a ricevere frutto dall'incontro. Anche Pietro e Giovanni sono arricchiti dall'incontro. Anzitutto la guarigione e la lode dell'uomo muove la folla allo stupore e provoca un raduno che darà a Pietro l'occasione per un secondo annuncio di Cristo morto e risorto ( (At 3, 9-12ss).

Ma essi stessi, memori di Colui alla cui morte si squarciò il velo del tempio, sanno che è Cristo il vero Tempio nel quale hanno accesso a Dio. Sanno che egli si lascia raggiungere nei suoi fratelli più piccoli: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40). Sanno di averlo incontrato alla porta del tempio, in quest'uomo ai margini della strada e della vita. Entrano nel tempio e non sono più soli: hanno acquistato un fratello: "ed entrò con loro nel tempio..." (3,7); "... si teneva accanto a Pietro e Giovanni" (3,11). Ogni incontro è un dono immenso ricevuto. Chi vive quest'avventura lo può testimoniare.

Ti ha rimesso in piedi

Chissà come si vede il mondo dal basso, come era capitato a te, fin dal grembo di tua madre. Tutti devono sembrarti alti, forti, perfino minacciosi. A loro devi lasciare la strada, e restare sui margini; gl'interni delle case e dei templi, e restare sulle soglie. Devi lasciare il passo a chi corre, ha affari da sbrigare, sacrifici da offrire. Lì, dal margine, puoi solo assistere allo scorrere del fiume della vita. Dio stesso, dicevano, non voleva dentro al tempio persone come te. Quanti pensieri avrai macinato nelle lunghe attese, tra un appello e l'altro a chi entrava e sembrava non vederti, quasi fossi ormai un pezzo dell'edificio. Tutti i giorni così, ti portavano, e ti riportavano via la sera. Quale altro destino potevi avere.? E che cosa potevi attenderti dai passanti se non qualche spicciolo, quasi a pagare una disgrazia da cui, loro, erano scampati?

Così facesti anche quel giorno, al passaggio di quei due. Qualche spicciolo rapidamente dato e avresti tolto il disturbo. Che significavano dunque quelle parole: "Guarda verso di noi?". C'era mai stato bisogno di incontrare lo sguardo di qualcuno? Cose, chiedevi, non relazioni. O forse... Fu come se quello sguardo avesse messo a nudo in te una fame più profonda, inconfessata: fame di esistere davvero per qualcuno, fame di un conversare che fosse un gratuito incontrarsi. Ti sentisti già come d'improvviso rimesso in piedi, dentro.

Una parola per te! "...quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!". Altri si guardavano bene dal toccarti. Si sa, quando non ci si può muovere, mica si può fare la doccia tutti i giorni, si fa quel che si può. Ti prese la destra e tu ci credesti come una cenerentola che il principe trae al ballo. Camminavi! Dimentico degli spiccioli del giorno, muovesti passi via via più sicuri, finche divennero danza. Saltavi, come un cervo per i dirupi. Vedevi gli uomini dritto negli occhi.

Non che sapessi tanto di quel Nome pronunciato nel sollevarti, ma di una cosa eri certo: che c'entrava Dio e dovevi ringraziarlo. Si era ricordato di te! Varcasti per la prima volta la soglia preclusa. Quel giorno, davanti agli angeli di Dio sfumarono tutte le lunghe preghiere dei sacerdoti, tutti i profumi degli olocausti di fronte al tuo fresco, libero canto. Dio è uno che guarda al povero e ne cerca lo sguardo! Dio è uno che mette in piedi. Dio è uno che toglie dai margini! La salvezza era giunta!

Ma chi era quel Gesù Nazareno per il quale tutto era avvenuto? Che forza, che notizia portavano in cuore quei due? Vicino a loro, mentre la folla stupita guardava te, tutt'orecchi sentisti raccontare di un Uomo, santo e giusto, spinto anch'egli ai margini fuori della città a morire e che Dio come te e prima di te aveva rimesso in piedi e fatto entrare nella sua casa perché vi facesse entrare una moltitudine di gente. Dovesti allora intravedere, oltre il loro sguardo, il suo.


Silvano Fausti
Lettera a Sila

Quale futuro per il cristianesimo?


VITA APOSTOLICA:
PARTECIPAZIONE PIENA ALLA VITA DEL FIGLIO,
INVIATO DAL PADRE

Il Signore Gesù «fece dodici, che chiamò anche apostoli, per essere con lui e per inviarli ad annunciare e ad aver potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14 s.).
La vita apostolica è una chiamata alla comunione fraterna perché comunione con il Figlio. Questa è la nostra salvezza, operata dalla sua parola che, vincendo il divisore, ci fa aderire e ci unisce a lui, nostro Signore.
Compimento perfetto della vita cristiana, la missione ti fa entrare in tutto il mistero di Dio: il Padre ti mette in compagnia del Figlio, facendoti partecipare pienamente alla sua condizione.
Egli infatti, che è una cosa sola con il Padre (Gv 10,30), conoscendo il suo eccessivo amore per ciascuno dei suoi figli (Ef 2,4), non si vergogna di farsi loro fratello (Eb 2, 11), per annunciare loro il suo nome (Sal 22,23). Per questo dice: «Ecco, io vengo, per fare la tua volontà» (Sal 40,8; Eb 10,5 ss.). La sua volontà è che si faccia solidale con tutti, per mostrare loro il suo volto di padre. Nella sua fraternità infatti è visibile la paternità comune: «chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9).
Il principio della missione è l'essere con lui, il Figlio che conosce l'amore del Padre.
Il fine è che tutti gli uomini entrino in questa comunione.

Il mezzo è farsi fratello, proclamando a tutti il «nome» di Gesù in cui ritroviamo la nostra verità di figli e fratelli. Perché «in nessun altro c'è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12). Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9, 16). Non interessandomi dei fratelli, ignorerei il Padre e sarei separato dal Figlio.

«Fece dodici»:
la comunità punto di partenza e d'arrivo della missione

Dopo aver chiamato singolarmente alla fede ciascun discepolo, Gesù «fece dodici». Sono i dodici patriarchi, le dodici colonne, la radice del nuovo popolo. Questa comunità è fatta dal Signore stesso, con un atto creatore. È il suo atto definitivo, con cui ci salva, perché ci unisce a sé e ci fa così figli del Padre e fratelli tra di noi.
«Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli siano insieme» (Sal 133,1). Nella fraternità risplende il volto del Figlio, la gloria del Padre, la luce dello Spirito.
La comunità fraterna è l'ambita mercede del vangelo che annunciamo, il frutto maturo, punto d'arrivo di ogni missione. Ma insieme è anche il suo luogo di partenza, dove chi annuncia vive in prima persona e testimonia con forza la verità di ciò che annuncia.
Per questo, il Signore ha inviato i suoi a due a due (Mc 6,7). Due è segno di comunità. La missione non è un affare privato, un' avventura solitaria. «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Anch'io ho atteso a Corinto l'arrivo tuo e di Timoteo, prima di dedicarmi totalmente alla predicazione (At 18,5).
Il nemico farà di tutto per rompere la comunità, sapendo così di distruggere l'opera di Dio. Satana, l'accusatore, ti farà vedere il male del fratello, invece di quello, ben più grave, che fai tu quando lo giudichi o condanni, anche «giustamente». Il diavolo, il divisore, ti separerà da lui, rendendotelo pesante più di qualunque fatica apostolica.
Ricordatelo! I difetti che trovi più insopportabili in chi ti è vicino, sono semplice specchio dei tuoi. Invece di irritarti con lui, chiedi perdono per te e ringrazia Dio che ti ha messo accanto uno che ti ridimensiona e ti sopporta.
Il Signore permette le miserie tue e altrui non per farti cadere, ma per renderti simile a sé, il Figlio misericordioso come il Padre (Lc 6,36).
Nei litigi inevitabili, il perdono sia la parola ultima su tutto. In esso si rivela la verità stessa di Dio, che è amore gratuito per tutti i peccatori. È necessario che avvengano le divisioni, per manifestare i veri credenti (1Cor 11,19).
La comunità perfetta non è quella dove non si sbaglia. Sarebbe una comunità di farisei! È quella dove ci si accetta nei propri limiti: ci si perdona e grazia a vicenda, come Dio ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).
Il giudizio dell'uomo è come un setaccio: lascia passare la farina e trattiene la crusca. Quello di Dio è come un vaglio: lascia passare la crusca e trattiene la farina. Valuta sempre come lui, che tiene il bene e lascia il male. La croce è il suo unico giudizio: ci stima tanto, da dare la vita per noi, mentre ancora siamo nel peccato (Rm 5,8).
Sta sotto il suo giudizio, libertà piena per te e per tutti.
L'uomo vive o muore dello sguardo altrui. Il tuo occhio rimandi a ognuno un'immagine molto buona di lui, come quella di Dio (Gn 1,31), che dal primo giorno si rispecchiò nella sua pupilla.
Coltiva all'interno della comunità l'amore fraterno, quella compagnia e comunione che suppone la comunicazione. L'amicizia nel Signore giova molto all',apostolo contro le tentazioni di evasione, di fuga e di compensazione affettiva.
Godi del bene del fratello. E più difficile, ma anche più perfetto, che piangere del suo male (Rm 12, 1 s.).
Se uno ama più di te, è più zelante di te, ha successo più di te, è più povero di te, ringrazia il Signore, gioisci e loda per lui. Lo spirito di lode trasforma anche l'inferno in paradiso, come quello d'invidia ha trasformato l'Eden in un deserto.
Per te il fratello e il suo ministero sia sempre più importante del tuo. Non far nulla per spirito di rivalità o per vanagloria (Fil 2,3). Quanto cosiddetto lavoro apostolico è semplice autoaffermazione, un girare a vuoto di chi è vuoto. Non essere una trottola roteante su se stessa, che si scosta da tutto ciò che tocca.
Se proprio vuoi gareggiare, gareggia nello stimare sempre di più l'altro (Rm 12,10), considerandolo in tutto superiore a te (Fil 2,3).
Così sperimenterai gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5). Avrai in te il suo sale: avrai il suo sapore e vivrai in pace con tutti (Mc 9,50; Rm 12,18).
Frena sempre l'ira. L'ira dell'uomo non compie la giustizia di Dio (Gc 1,20). L'ira di Dio, infatti, che compie ogni giustizia tra gli uomini (cf. Mt 3,15), è la croce, misericordia e salvezza per tutti.
Molta attività è spesso frutto dell'inquietudine di chi non sa stare con gli altri. L'uomo, sempre avido di affetto, quando ne è privo, cerca di sostituirlo figliando infinite opere. Esse però sono nocive tanto all' autore quanto al destinatario.
Solo quando saprai vivere e collaborare con gli altri, potrai anche vivere e lavorare da solo, se fosse necessario.
Perché non sei mai solo, ma solo e sempre collaboratore del Regno.


«Per essere con lui»:
la comunità apostolica ha come fine, mezzo e principio la comunione con lui

Il Signore ha fatto i dodici «per essere con lui». Lui stesso è al centro della sua comunità, come nel cuore di ognuno.
Gesù non ha creato gli apostoli perché «facessero» qualcosa di buono, ma perché «fossero» con lui!
Ovunque andrai, la tua preoccupazione prima non sia il fare per lui, come Marta, ma l'essere con lui, come Maria.
Essere con lui, il Figlio, è il destino ultimo di ogni creatura. Tutto è fatto per mezzo di lui e in vista di lui, e solo in lui sussiste (Col 1,16 s.).
L'apostolo desidera stare con Cristo, perché è lui la sua vita (Fil 1,23.21), ormai nascosta in Dio (Col 3,3).
Non è bene che l'uomo sia solo (Gn 2,18). Infatti è bisogno di compagnia, immagine e somiglianza di colui che è amore.
Non l'altro, bensì la solitudine è l'inferno.
Solo con il Figlio l'uomo colma la sua solitudine abissale, e ritrova la realtà di cui è riflesso.
Se non sarai «con lui», il vuoto del tuo cuore ti spingerà a fare tante cose buone, tranne l'unica che sei chiamato a fare. Darai alla gente tutto, anche l'impossibile, tranne ciò che dovresti dare. Creerai continue domande che non spetta a te soddisfare, e rimanderai a tempo indefinito l'evangelizzazione, ostacolandola a lungo anche per chi verrà dopo di te.
L'apostolo non è un impresario di opere più o meno buone; neanche un filantropo più o meno disinteressato.
È uomo di Dio, uno che sta con il Signore Gesù e insegna a fare altrettanto.
Nell'intimità liberante e appagante con lui sperimenterai in prima persona ciò che devi annunciare agli altri: «Va' e annuncia ciò che il Signore ti ha fatto» (Mc 5,19).
Solo se sei con lui, puoi essere suo testimone fino agli estremi confini della terra, come ci ha comandato (At 1,8). Allora annuncerai colui che hai conosciuto e veduto, contemplato e toccato, perché anche altri siano in comunione con noi, la cui comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (1Gv 1,1-3).

Essere con lui con il cuore: la preghiera

Sii con lui innanzitutto con il cuore, stabilmente fisso in lui. Dove è il tuo tesoro, sia anche il tuo cuore (Lc 12,34).
Questo intendo quando dico che bisogna pregare sempre, senza cessare (1Ts 5,17; cf. Lc 18,1).
La nostra comunione con lui è la nostra vita. Staccati da lui, siamo morti, come tralci recisi dalla vite (Gv 15,1-6).
Il tuo centro di gravità non sia in ciò che fai, ma in lui, che ami sopra ogni cosa e cerchi in ogni cosa.
Dedicandoti al servizio dei fratelli, non cadere nella tentazione di non trovare il tempo per stare con lui. Sarebbe grave, anzi mortale. Ti taglieresti dalla tua sorgente, e non serviresti più i fratelli. Te ne serviresti per sentirti vivo, forse utile, addirittura buono. Dio te ne scampi, per la sua misericordia!
Ordina la tua vita al suo fine, che è «essere con lui».
Allora sarai come un vaso traboccante di acqua viva.
Sii conca e non canale. Tutti potranno attingere da te, e tu rovescerai intorno dalla tua abbondanza!
Se non preghi, corri invano e batti solo l'aria (1Cor 9,26s.).
Come puoi portare i fratelli a essere con lui, se tu stesso ne sei lontano? Nessuno dà ciò che non ha e nessuno ha qualcosa se non l'ha ricevuto (1Cor 4,7).
La tua prima occupazione sia la perseveranza nella preghiera, come fecero gli apostoli sempre, prima e dopo pentecoste (At 1,14; 6,4).
La preghiera è il respiro della fede. Coltivala quindi come prima cosa.
Il desiderio di essa rimanga sempre; ma si traduca anche in realtà. Diversamente resterà solo un' esigenza velleitaria e frustrante.
Passerai dal piano del desiderio a quello della realtà quando troverai per essa ogni giorno concretamente un tempo e un luogo propizio - il migliore e il più tranquillo - che diventerà un po' alla volta il centro della tua giornata. Il luogo spirituale sia in fondo al tempio, col pubblicano che invoca perdono (Lc 18,13). Qui conosci la realtà tua e di Dio: tu sei peccatore e lui ti è padre. Adoralo quindi nello spirito di perdono e nella verità del Figlio, in cui sei da lui costituito (cf. Gv 4,24).

La tua preghiera potrà anche essere difficile, distratta e desolata. Ciò sarà a causa dei tuoi peccati e delle tue trascuratezze, che ti han fatto cadere in basso. Ma va' avanti, e rimonta la china con fiducia e perseveranza. Hai bisogno di allenamento. Il Signore ti è vicino e ti incoraggia.
Quando sarai arido, invece di smettere, dedicale più tempo. Non incattivirti perché il Signore tarda a rispondere (Lc 18,1).
Vuol purificarti per accostarti a lui, il Santo. Egli può e vuole darti più di quanto tu possa domandare o pensare (Ef 3,20). Invece dei suoi doni, vuol darti se stesso come dono.
Se vorrai gustare la sobria ebbrezza dello Spirito, sii temperante nell' avidità della bocca, degli orecchi e degli occhi, nonché in quella più sottile della mente, con le sue molteplici curiosità, e soprattutto in quella dello spirito, bramoso di doni e disattento al Donatore. La temperanza ti renderà più difficile l'ira e più facile la castità.
Oltre che effettiva, la tua preghiera sia affettiva. Chiedilo a Dio con umiltà. Se il tuo cuore non gusterà di . lui, cercherà insaziabilmente di saziarsi di tutto ciò che non sazia.
Sappi che la preghiera è il principale mezzo apostolico. Per questo lotta sempre con me in essa (Rm 15, 30; Col 4,12).
Da una notte di lotta col Signore nacque Israele (Gn 32). Dall'orazione notturna di Gesù nacque il nuovo Israele (Lc 6,12 ss.). Inoltre un solo uomo con le braccia alzate - Aronne e Cur gliele sostenevano - può vincere un intero esercito di nemici (Es 17,8 ss.). Ancora lo stesso uomo da solo può rappresentare davanti a Dio l'intera nazione e salvarla dalla morte, come sta scritto: «Dio aveva già deciso di sterminarli, se Mosè, suo eletto, non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio» (Sal 107,23).

Essere con lui con gli orecchi e gli occhi:
lettura e contemplazione della Parola

Sii con lui, oltre che col cuore, con gli orecchi e gli occhi, che vanno dove porta il cuore.
L'amore desidera conoscere e vedere.
Noi non abbiamo ascoltato e visto il Signore Gesù, Verbo fatto carne. Ma sappiamo che la sua carne è tornata Parola, per farsi carne in noi che l'ascoltiamo e contempliamo. Perché l'uomo diventa la parola che ascolta e si trasfigura in colui davanti al quale sta.
La parola che ci racconta la storia di Gesù è per noi la sua carne, norma di fede e criterio supremo di discernimento spirituale. Diversamente ci inventiamo un Dio fatto su misura delle nostre fantasie religiose (cf. Ef 4,20; 1 Gv 4,2), e crediamo non in lui, ma nelle nostre idee su di lui.
Di Dio non abbiamo nessuna immagine e non dobbiamo farcene alcuna. Lo conosciamo attraverso la sua rivelazione a Israele e la vicenda di Gesù, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9).
Per questo leggi sempre le Scritture, per conoscere la Parola di cui sei servo a salvezza tua e a favore dei fratelli. È la tua professione specifica di apostolo (Lc 1,2; At 6,4).
Leggile sempre con stupore e rendimento di grazie. La Parola sarà luce per i tuoi occhi, miele per la tua bocca e gioia per il tuo cuore (Sal 19,9.11; 119,103.111).
Leggi e stupisci; convertiti e gioisci; discerni e scegli, quindi agisci.
Sappi che dove non stupisci, non capisci; dove non ti converti, non gioisci; dove non gioisci, non discerni; dove non discerni, non scegli; dove non scegli, agisci inevitabilmente secondo il pensiero dell'uomo e non secondo quello di Dio (Mc 8,33).
La Parola sia per te il centro della tua vita. È Gesù, il Figlio, che ami e desideri conoscere sempre di più per amarlo sempre meglio e in verità.
Ora capisci perché, fin dall'inizio, tra le tante cose da fare, gli apostoli, alla luce dello Spirito, hanno così capito e definito la propria vocazione: «essere perseveranti nella preghiera e nel servizio della Parola» (At 6,4).

Essere con lui con i piedi:
seguirlo in una vita conforme alla sua

Sii con lui con i piedi, che percorrono la sua stessa via.
Il desiderio di camminare come lui ha camminato (1Gv 2,6) sia la speranza che muove la tua vita ad essere conforme alla sua.
Preferisci e scegli ciò che lui ha preferito e scelto, per stargli più vicino e somigliargli più perfettamente.
Questa amorosa speranza liberi il tuo cuore da ogni attaccamento al male, e ti spinga ad amare per amor suo la povertà, l'umiliazione e l'umiltà, la sua insignificanza, la sua piccolezza, la sua castità e la sua obbedienza. Come Mosè, stimerai l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore di tutti i tesori d'Egitto (Eb 11,26). Odiando ciò che il mondo ama e amando ciò che il mondo odia, guarirai dal perverso giudizio che ti fa compiere il male come fosse bene e fuggire dal bene come fosse male. Quanto siamo malati di testa e di cuore!

Essere con lui con le mani:
toccarlo e unirsi a lui

Sii con lui infine con le mani, per toccarlo, ed avere comunione piena con lui. Ciò si compie nella carità.
Dio non è oggetto della tua intelligenza, che ne riflette solo l'immagine. E invece oggetto del tuo amore, che ti unisce direttamente a lui.
Amalo, e la tua vita sarà trasformata nella sua - e potrai dire che non sei più tu che vivi, ma lui che vive in te (Gal 2,20).
Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai giunto alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo (Fil 3,12).
Sii anche tu conquistato, innamorato di lui, con un desiderio struggente che fa della tua esistenza un unico grido: «Maranà tha: Vieni Signore!» (1Cor 16,22). È l'eco di amorosa attesa alla sua promessa: «Sì, verrò presto»(Ap 22,20). Allora saremo sempre con lui (1Ts 4,17).
Mio caro, la vita apostolica presuppone sia una vita cenobitica, da vivere in comunione coi fratelli, sia una vita eremitica, da vivere in solitudine con lui.
Solo dopo sei abilitato ad essere apostolo, inviato a tutti i fratelli nel suo nome.
Guardati dal pericolo di eliminare le prime due tappe. Se non sai stare coi fratelli e non sai stare con lui, non puoi essere suo apostolo.

«E per inviarli»:
unione con lui sorgente della missione

Nella misura in cui lo tocchi e sei unito a lui, sei inviato. Infatti la tua missione è proprio quella di portare gli altri a essere «con lui».
È apparente la contraddizione tra essere con lui ed essere inviati da lui. Il cuore, quando si stringe, espande la linfa vitale in tutto il corpo. Così tu, stretto a lui, porterai la sua vita fino agli estremi confini della terra. Se aderisci a lui, sei spinto dalla sua stessa conoscenza e amore del Padre verso tutti i fratelli.
Il tempo che dedicherai a lui non sarà sottratto agli altri. Il frutto del tuo apostolato dipenderà dalla tua unione con lui.
La tua missione infatti è la stessa del Figlio. Sei suo collaboratore (1Cor 3,9). Ciò significa che è lui l'operaio che fa il lavoro; tu ti associ a lui, facendo il suo stesso lavoro, e a modo suo. Diversamente distruggi ciò che lui fa.
Stai anche attento a non sostituirti a lui, e a compiere un lavoro tuo o a modo tuo. Non saresti più suo collaboratore.
Lui è una cosa sola col Padre, e fa ciò che fa il Padre (Gv 10,30; 5,19). Così tu sei una cosa sola con loro (Gv 17,22) e compi la stessa opera. Come Gesù compie ciò che vede fare dal Padre (Gv 5,19), così anche tu compi ciò che vedi in Gesù.
Azione e contemplazione non si oppongono. Azione valida è solo quella che sgorga dalla contemplazione.
La differenza tra Marta e Maria non sta nel fatto che la prima agisce e la seconda no. Sta invece nella diversa fonte del loro agire. Per la prima ciò che conta è il proprio io religioso e le sue preoccupazioni per piacere al Signore e dimostrargli il proprio amore. Alla seconda invece piace il Signore, e gusta del suo amore. Mentre Marta resta nella schiavitù della legge e nel peccato di autogiustificazione, Maria approda alla gioia del vangelo e alla libertà dei figli.
La tua unione con il Signore è quindi la molla e la forza della tua azione apostolica.
Ricordati che l'intercessione di uno solo ha risparmiato tutti (Es 32,11-14), e che, nella fede di uno solo, saranno benedette tutte le stirpi della terra (Gn 12,3).
Come il peccato di uno solo fu morte per tutti, così un solo giusto sarà la vita per tutti (Rm 5,12-19).
Se non sei giunto alla contemplazione di Maria, il tuo ministero sia solo per breve tempo e per esperimento. Diversamente risulterà non solo inutile, ma anzi dannoso, sia a te che agli altri, dirà un uomo di Dio (Lallemant). Sarà come il muoversi di «un mare agitato che non può calmarsi, e le cui acque portano su melma e fango» (Is 57,20).
Sappi che nel volgerti al Signore e nella calma sta la tua salvezza; nell' abbandono confidente in lui la tua forza (Is 30,15).
Dirà giustamente un grande maestro dell' agape: «È più prezioso e più utile per la Chiesa un atto puro d'amor di Dio, che tutte le altre opere prese insieme, anche se sembra che l'anima faccia niente» (S. Giovanni della Croce).

«Ad annunciare»: l'annuncio
mezzo specifico della missione

Ti dico un grande segreto, che molti nel futuro ignoreranno: l'evangelizzazione si fa con l'annuncio dell' evangelo.
Infatti è piaciuto a Dio salvare l'uomo con la stoltezza della predicazione (1Cor 1,21).
Non arrossire della debolezza dell'evangelo: è la potenza di Dio che salva chiunque l'accoglie (Rm 1,16). Perché la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio (Eb 4,12). Dice il Signore: «La parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is 55,11).
La Parola infatti agisce in chiunque l'accoglie non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale Parola di Dio che opera in chi l'ascolta con fede (1Ts 2,13).
Alla parola esterna, corrisponde l'attrazione interna del Signore, che apre il cuore ad aderirvi (At 16,14). Infatti lui, oltre che Parola annunciata, è il Maestro interiore che agisce con efficacia, liberando dalle resistenze contrarie e convincendo della verità.
La fede è risposta personale alla proposta di Gesù, il Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20), perché possa riamarlo con lo stesso amore.
Ma come si può amarlo, se non lo si conosce; e come lo si può conoscere, se l'inviato non lo annuncia (cf. Rm 10,14)?
Sappi che con l'annuncio tu realmente salvi il fratello. Non perché tu sia il salvatore; ma perché il Padre nel Figlio ha già salvato tutti per grazia, e tu, con l'annuncio, ne fai conoscere l'amore, perché tutti lo accolgano e ne vivano.
Non credere di dover «costruire» il Regno. Il Regno di Dio è Dio stesso che regna, e c'è già. Il Regno del Padre, che invochiamo nella preghiera del Signore, è lo stesso Figlio unigenito - benedetto nei secoli - che è venuto, viene e verrà, allo stesso modo in cui l'abbiamo visto camminare e andarsene al cielo (At 1,11).
Tu semplicemente lo annunci, perché chiunque lo desidera possa conoscerlo, invocarlo, accoglierlo ed esserne accolto.
L'umanità è come la donna che Gesù ha guarito di sabato nella sinagoga. Sta ancora tutta incurvata sulle cose della terra e accartocciata su se stessa, in attesa che le sia notificato il dono che già le è stato fatto: «Sei già stata slegata dal tuo male», e puoi star dritta davanti a lui (Lc 13,12).
Non aver paura se il nostro ministero dispone solo della debolezza della Parola. Essa è potenza di Dio (1Cor 2,4), che solo può far invocare il nome che dà salvezza (At 4,12). Nessuno infatti può dire: «Signore è Gesù», se non nello Spirito Santo (1Cor 12,3). Il vangelo, di cui sei costituito araldo, apostolo e maestro, è il mezzo potente con cui Cristo vince la morte e fa risplendere la vita (2Tm 1,10 s.).

1. Debolezza dell'annuncio e tentazioni dell'apostolo - La salvezza viene dalla debolezza della Parola, e non da altre azioni potenti che sarai tentato di compiere per piegare gli altri alla fede.
L'efficacia del tuo annuncio sarà inversamente proporzionale all' efficienza dei mezzi che userai.
Non preoccuparti dell'insignificanza e irrilevanza del Regno. Esso è come un chicco di senape, il più piccolo tra i semi della terra (Mc 4,30 s.).
Non angustiarti se il bene sembra perdente: il chicco che non muore non porta frutto (Gv 12,24).
Tu cerca solo di testimoniare Gesù Signore, luce del mondo. E sii certo che una candela fa più luce di mille notti, ed è capace di provocare un incendio che le illumina tutte.
Non vergognarti della tua debolezza. È la tua forza
(2 Cor 12,10)! Infatti ti associa alla parola annunciata, ti espone al rifiuto e alla croce. Ma proprio questa è la forza di Dio, amore più grande di ogni rifiuto e della stessa morte.
Dio ha scelto, per proporsi all'uomo, la modestia e l'umiltà della parola. Infatti l'amore non può imporsi con la forza, perché ama essere riamato in libertà.
Per questo anch'io, pur essendone capace, non ho mai cercato di convincere con sublimità di parola e di sapienza (1Cor 2,1). Non bisogna svuotare la croce, svuotamento del Signore (1Cor 1,17) e salvezza nostra.
In ogni messaggio, il mezzo che usi è la parte principale dello stesso messaggio. Un mezzo potente sarà sempre messaggio di dominio.
Nell'annuncio non ricercare il successo, ma la verità; e non sottrarti al compito di annunciare tutta la volontà di Dio, per non essere tu colpevole dei tuoi fratelli (At 20,26 s.). Se volessi piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo (Gal 1,10). Infatti amare il mondo è odiare Dio (Gc 4,4).
Con rispetto e amore, poni ognuno davanti a Dio e alla sua parola. Questa agirà in lui con la forza del seme, secondo le disposizioni del terreno.
Ma abbi pazienza e non stare a tirar l'erba per farla crescere. La romperesti!
Non invocare fuoco su chi è indisposto, come Giacomo e Giovanni sui samaritani (Lc 9,54). L'unico fuoco che il Signore conosce è quello che arde e non consuma, anzi vivifica: è lo Spirito Santo.
I tempi di Dio non sono i nostri. Sono i tempi della sua misericordia, più ostinata di ogni nostra durezza ad arrenderci alla verità. Ogni costrizione che sembra accorciarli, li allunga indefinitamente, Egli usa pazienza verso di noi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano tempo e modo di convertirsi. Per il suo desiderio di noi, un giorno d'attesa è per lui come mille anni; ma, per la sua tolleranza verso di noi, mille anni sono per lui come un giorno (cf. 2Pt 3,8 s.).
Il tuo annuncio non sia mosso da spirito di proselitismo - per essere più grandi e più numerosi! - ma dall'amore del Cristo, al pensiero che egli è morto per tutti (2Cor 5,14). È il suo stesso amore di Figlio verso tutti i fratelli che ti spinge verso di loro.
Il tuo annuncio sia pieno di stima per il fratello, per il lontano, il diverso, il peccatore. Cristo l'ha stimato più di sé, dando la sua vita per lui. E stato comprato a caro prezzo (1Cor 6,20): vale il prezioso sangue dell'agnello senza difetto e senza macchia (1Pt 1,19).
Ricordati che ogni volta che non usi i mezzi che usò Gesù, non sarai collaboratore del Regno, ma del nemico, anche se non lo sai!
Tieni presente che le tentazioni sono sempre tutte «a fin di bene». Per fare un maggior bene e con minore fatica - se non addirittura meglio di quanto abbia fatto il Signore stesso! - userai quei mezzi che l'uomo considera avvii. Ma non scambiare l'ovvietà dell'uomo con il pensiero di Dio. Pietro fu chiamato satana, perché pensava secondo gli uomini e quindi rifiutava la parola della croce (cf. Mc 8,31 ss.).
L'uomo cerca l'avere, il potere, l'apparire. Crede così di realizzare se stesso e anche il Regno di Dio. Ma tu sai bene che queste brame, suscitate dalla menzogna del nemico, sono il principio di tutto il male del mondo. Chiudono l'uomo nell' egoismo e lo distruggono, lo pongono in balia di satana e del suo regno. Il Signore è venuto in povertà, servizio e umiltà. Così ci offre il suo amore e ci libera dal nostro male.
Ti troverai tra gente bisognosa di tutto; e cadrai nella tentazione di cambiare le pietre in pane. Essendone, per fortuna, incapace, perderesti però tutto il tuo tempo a sforzarti di farlo!
Ricordati invece che non di solo pane vive l'uomo. Il suo primo pane è la parola che dà la vita eterna (Lc 4, 1-4)! Il Signore Gesù, pur avendo potuto sfamare sé e tutti, non lo fece. Si fece lui stesso fame per diventare nostro cibo che sazia.
Il potere ti alletterà sempre molto. È molto umano, troppo umano, anzi... diabolico. Penserai che, una volta conseguito, tutto sarà tuo (Lc 4,5-8), e sarai in grado di fare tutto il bene possibile. Invece ti sarai piegato al nemico e ti sarai allontanato dal Regno, che non è dominio su nessuno, ma per tutti libertà di amare e di servire.
Sarai anche tentato di fare di Dio uno che ti ascolta, invece di ascoltarlo. Vorrai che lui dia risposte alle tue domande, invece di rispondere tu alle sue; che confermi le tue opinioni, invece di conformarti alle sue. Non. tentare il Signore Dio tuo (Dt 6,16; Lc 4,12) e non irritarlo! Questa, che ti parrà gran fede, è la perversione di essa.
Quando sarai affamato, perseguitato e senza difesa, non cadere nella sfiducia. Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati (2Tm 3,12). Mi sorprendo che qualcuno si sorprenda di,questo, come se fosse qualcosa di strano (1Pt 4,12). E capitato così a tutti i profeti prima di noi (Mt 5,12) e al Signore stesso che ha detto: «Un servo non è più grande del suo Signore. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). E una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni, soffrendo ingiustamente (1Pt 2,19). Infatti è necessario subire molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio (At 14,22).
Sappi che il Regno non è ostacolato dai «cattivi» e dalle loro persecuzioni. Essi ne affrettano la venuta, come avvenne con la croce. Pure Erode e Ponzio Pilato con le genti e il popolo d'Israele, quando si radunarono insieme contro Gesù, non fecero che compiere ciò che il Signore aveva preordinato che avvenisse (At 4,27s). Questa è l'opera esclusiva di Dio, mirabile agli occhi nostri (Sal 118,23): trarre il bene dal male.
Il Regno è ostacolato invece dai «buoni» e dal loro zelo senza discernimento. Infatti, quando usano - a fin di bene, si intende! - gli stessi mezzi del nemico, hanno il potere di guastare e ritardare il Regno senza alcun limite che quello posto dalla pazienza di Dio, che è infinita. Ma non prendiamoci gioco della ricchezza della sua bontà: non diventi pretesto alla nostra empietà, ma sia spinta alla conversione (Rm 2,4; Gd 4).
Questa è l'opera stupida dell'uomo senza intelligenza spirituale: fare il male con il bene!
Non agire mai «a fin di bene»; fa', con purità di cuore, sempre e solo ciò che è semplicemente bene.
Non preoccuparti dei risultati e della rilevanza. Il Signore Gesù ne ebbe pochi. Preoccupati di Dio e della sua verità.
Il nemico ti darà supplemento di zelo, sempre più fanatico, quando mancherai di intelligenza, in modo che tu possa nuocere in proporzione della tua buona volontà. Guai a te se ti aggiudicherai la buona fede! Sarebbe la peggior autogiustificazione. Scopriti sempre in mala fede; chiedi perdono e convertiti.
Il nemico ti darà invece supplemento di intelligenza, sempre più critica, quando mancherai di zelo, in modo che tu resti fiacco e scoraggiato, incapace di compiere il bene che vedi.
Guarda bene ciò che ti manca: se lo zelo, l'intelligenza o ambedue. Tienilo presente e chiedilo nella preghiera.
Pensa che tragedia se, in quella notte in cui il Signore fu tradito, Pietro con la sua spada fosse stato più forte
Dei nemici!...
Di tutti i mezzi che usiamo per combatterli, Dio voglia che presto abbiamo a liberarcene, come Davide dell'armatura di Saul. Affronterà Golia non con la spada, la lancia e l'asta, ma nel nome del Signore degli eserciti (1Sam 17,45).
E se noi, come è presumibile, non ce ne libereremo, Dio voglia che siamo sempre più deboli del nemico, in modo da venire sconfitti e dover fuggire, come Pietro e gli altri nell' orto. Diversamente il Signore resterà sempre in agonia, per causa nostra!
Ricordati, soprattutto, che Dio non ha nemici. Ha solo figli.
E, per inciso, tieni anche bene in mente che non ha nipoti. Non fare quindi il padreterno!
Guardati dal demonio che istigò Davide al censimento. Non bisogna misurarci quanti siamo e quanto valiamo, né per ricevere plauso né per chiedere aiuto! Dio manderebbe l'angelo sterminatore, con la spada sguainata verso Gerusalemme (1Cr 21,1.16).

2. Povertà: condizione per l'annuncio- La povertà per l'annunciatore del Vangelo non è un consiglio. È un ordine del Signore Gesù, che ci ha inv:iati col comando di non portare nulla con noi, né pane, né bisaccia, né denaro (Mc 6,8). Solo quando siamo deboli, siamo forti della sua stessa forza (2Cor 12,10), che è la stoltezza e la debolezza della croce (1Cor 1,18). Perché la forza di Dio è l'amore, che nulla possiede, neanche se stesso, ma tutto dà, fino al dono di sé. Dio non possiede neanche il proprio essere. L'essere del Padre è l'essere tutto del Figlio e viceversa, e l'essere dello Spirito è l'essere l'amore e il dono totale di ambedue. Inoltre l'essere suo in sé è l'essere tutto fuori di sé in nostro favore. Grande mistero, che fa della povertà la più grande ricchezza sua e nostra!
La povertà rende l'apostolo bisognoso di accoglienza. Così sperimenta in prima persona la realtà che annuncia, quella del figlio che è bisogno di essere accolto, e fa sperimentare a chi lo accoglie la misericordia del Padre, che tutti accoglie.
Uno non è ciò che ha, ma ciò che dà. Chi ha cose, dà cose; chi ha nulla, dà se stesso ed è se stesso. Questa è la verità profonda che la povertà testimonia: un Dio amore.
La povertà è condivisione e solidarietà, unica medicina alla solitudine e all' egoismo.
La povertà non ti permette di dominare. Ti costringe a servire e ti rende umile, facendoti simile a colui che per amore si è fatto servo di tutti.
La povertà ti libera dagli idoli del mondo - l'avere, il potere e l'apparire.
La povertà ti fa porre la fiducia nel Padre. E la madre che ti genera suo figlio.
La povertà ti associa alla croce di Cristo, che con essa ha vinto il nemico.
Stai attento a quanto ti dico: non è la tua testimonianza di povertà che rende efficace e credibile la Parola. Ma la tua controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile agli occhi di chi ti ascolta annunciarla con la bocca e ti vede smentirla con la vita.
La povertà è il tuo bastone. Strumento primordiale con cui raggiungi ciò che non è a portata della tua mano, questa piccola cosa di legno ti è data come scettro regale. Con esso Mosè aprì il Mare per salvare il popolo e lo richiuse per affogare il nemico; ,con esso fece scaturire acqua dalla roccia nel deserto. E figura della croce, il nulla con il quale il Signore ha trionfato del male e ci ha dissetati della sua vita.
Quando avrai mezzi potenti, il Signore non ti concederà mai di raggiungere il fine apostolico. Ti dirà, come a Gedeone: «La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle tue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato» (Gdc 7,2).
Come al giovane ricco, l'unica cosa che ti manca e di cui hai bisogno, è paradossalmente proprio ciò che hai e di cui non ti vuoi liberare (Mc 10,21).
Dice Gesù: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).
Se non hai questo bastone, non sei con lui. E chi non è con lui, è contro di lui; e chi non raccoglie con lui, disperde (Lc 11,23).
L'unico mezzo onnipotente che hai è la parola della croce, che non devi vanificare con l'uso di altri mezzi di sapienza e di potere (1Cor 1,17 s.).
Così annuncerai con potenza - la potenza della sola fede - il nome del Signore Gesù, salvatore tuo e di tutti.
L'avevano capito bene Pietro e Giovanni, mentre salivano al tempio per la preghiera. Al povero storpio in attesa di elemosina, Pietro disse: «Guarda verso di noi». Se avessimo oro e argento, te lo daremmo; se ne avessimo tanto, fonderemmo un istituto per storpi; ma, siccome «non possiedo né argento, né oro, ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina» (At 3,4ss.).
La povertà e l'annuncio del suo nome hanno il potere di cambiare la condizione dell'uomo e di farlo entrare danzando e lodando nella casa di Dio (At 3,1-8).
Ti ripeto di non far dipendere 1'efficacia dell' annuncio dai mezzi di efficienza. Questi impediscono a Dio di agire, come l'armatura di Saul impediva a Davide di camminare: «Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato» (1Sam 17,39).
In spirito di profezia vedo, ma confusamente, come un carro di fuoco e di tuono, veloce come il turbine, simile a quello che rapì Elia, che proprio così finì il suo ministero (2Re 2,11 ss.)! Potrà giovare per essere prima e in più posti. Ma a fare che? Questo è il problema! Speriamo che la rapidità della nostra azione non sia in anticipo su Dio, in modo che, invece di essere collaboratori suoi, sostituiamo la sua con la nostra opera - finendo così anche noi il nostro ministero.
Certamente questo carro di fuoco non favorirà la solidarietà. Susciterà anzi invidia e malcontento in tutti quelli che grideranno invano: «Padre mio, padre mio, prendi anche me sul tuo cocchio» (cf. 2Re 2,12).
Sarai beato se ti accontenterai del bastone e dei sandali (Mc 6, 8 s.), tenuta pasquale di chi esce dalla schiavitù d'Egitto alla libertà dei figli (Es 12,11). Se vuoi, puoi rinunciare anche al bastone, dato che già hai la croce, che sostiene Dio stesso; puoi rinunciare anche ai sandali e andare scalzo come lo schiavo, dato che sei servo della Parola (Lc 1,2), di cui sei debitore a tutti (Rm 1,14). E come il tuo pane è Cristo, vita tua (Fil 1, 21), così sia egli anche il tuo unico vestito, la bisaccia del tuo sostentamento e il denaro che ti media tutto (cf. Mc 6,8 s.). In lui infatti sono nascosti tutti i tesori e nella sua debolezza abita tutta la pienezza della divinità (Col 2,3.9).

3. Gratuità: segno della grazia che si annuncia - «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Il servizio apostolico è necessariamente gratuito, perché partecipa della grazia stessa del Signore morto e risorto per noi.
Chi chiede o riceve il prezzo dell' amore, pecca di prostituzione.
Guai a te se ti farai pagare per il tuo servizio della parola e della preghiera. Come il servo infedele Ghecazi, prenderai su di te la lebbra dalla quale il suo padrone liberò Naaman il siro: una lebbra che «si attaccherà a te e alla tua discendenza per sempre» (2Re 5, 20-27).
Ricordati che il Signore fu valutato 30 sicli d'argento (Zc 11,13). Il prezzo dello schiavo (Es 21,32) o dell'asino fu per Giuda quello del sangue di Cristo (Mt 27,3-10). Tu non svalutarlo, almeno!
Parlo in spirito di profezia! Pensa, caro Sila - e inorridisci con e come me! - che si pagherà il sacrificio di Cristo con 10 danari venuti da lungi, da una nazione ancora ignota, posta oltre gli estremi confini della terra, che allora sarà tanto importante da sostituire con la sua moneta l'oro. In questo modo i ministri dell' altare guadagneranno dal suo sacrificio in venti minuti quanto un lavoratore in un mese. E quindi chiaro che molti del popolo ambiranno essere sacerdoti. Ma non certo per associarsi al mistero di Cristo umiliato, bensì per essere potenti ed emergere dal gregge. Ciò danneggerà molto la Chiesa, ostacolando la nascita di anziani validi, amministratori fedeli del deposito della fede e modelli del gregge loro affidato (1Pt 5,3). Se l'albero sarà bacato alle radici, la colpa sarà di chi non ha ascoltato la parola del Signore.
Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). E faranno ciò credendo di rendere culto a Dio, perché in realtà non hanno conosciuto lo Spirito del Figlio (Gv 16,2 s.).
Da Pietro venne Simon mago; e lo tentò con denaro per comperare lo Spirito di Gesù. Ma da te, quando ti presenterai in modo potente, non verranno a chiederlo perché non lo vedranno né apprezzeranno. Allora sarai tentato in maniera più sottile: cercherai non tanto di venderlo - nessuno lo vuole! - quanto di passarlo come omaggio non gradito aggiunto a un dono ambito. Così offrirai agli indifferenti regali e servizi di qualunque tipo, purché accettino anche il Signore. Questa è simonia invertita, che svaluta il Vangelo e impedisce l'accesso alla fede. Infatti a te e ai tuoi successori chiederanno sempre quei regali e servizi, e nient' altro. Sarà addirittura ritenuto cattivo chi vuoi loro offrire il pane di vita condividendo la loro fame.
Ritenetemi pure come un pazzo (2Cor 11,16), ma vorrei che anche in questo molti fossero come me (1Cor 7,7). «Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani». E lavorando che si soccorrono i deboli (At 20,34 s.).
L'apostolo che non fa così, viva di elemosina. E non la accumuli, dando e ricevendo gratuitamente come povero che vive della grazia altrui. Il Signore ha proibito di mettere la museruola al bue che trebbia (Dt 25,4), e ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del vangelo (1Cor 9,14).
lo ho preferito la prima soluzione, perché sono schiavo del Vangelo, che annuncio non per mia iniziativa, ma perché è un compito affidatomi.
La mia unica ricompensa è quella di evangelizzare gratuitamente, come fece il Signore. Preferirei morire piuttosto che agire diversamente (1Cor 9,15-18). E questo non per spirito di orgoglio o di indipendenza, ma come testimonianza più limpida della grazia del Signore nostro Gesù Cristo, che ha dato tutto senza ricevere nulla in contraccambio. Per questo vi è più gioia nel dare che nel ricevere (At 20,35). Soprattutto se tieni presente che la sola ricompensa al bene che ci ha fatto, è la croce che gli abbiamo inflitto!

«E avere potere sui demoni»: parola come esorcismo fondamentale

Fine immediato dell' annuncio è la vittoria sul demonio. Il vangelo vince la morte e fa risplendere la vita (2Tm 1,10). Infatti ci testimonia di colui che è divenuto partecipe del nostro sangue e della nostra carne per ridurre all'impotenza, mediante la sua morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per paura della morte, erano schiavi per tutta la vita (Eb 2,14 s.). Ci presenta infatti un Dio che ci ama, ed è solidale con noi oltre ogni peccato e morte, per darci la sua vita.
Solo così è sbugiardata la menzogna antica ed è svuotato il pungiglione della morte (1Cor 15,56), che avvelena tutta la nostra vita. La morte non è più la minaccia inesorabile a cui sottrarsi in un disperato e inutile tentativo di salvarsi a tutti i costi. Origine dell' egoismo e di ogni male, più che l'orgoglio, è la paura del limite e l'angoscia.
L'annuncio dell' evangelo è un esorcismo continuo, che ci libera dal dominio di satana, rivelandoci la nostra verità di figli. Per questo Gesù dice ai suoi discepoli: «Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli»(Lc 10,20).
Lo spirito impuro cede il posto allo Spirito Santo, che ci fa figli e grida in noi: «Abba» (Gal 4,6; Rm 8,15).
Fine di ogni missione è restituirci alla nostra identità di figli nel Figlio, vita di ogni vivente. Questa è la nostra salvezza, compiacenza del Padre ed esultanza del Figlio, che, danzando, canta la sua gioia per la grande rivelazione fatta ai piccoli: «Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10,21 ss.).
Dove viene la luce cessa la tenebra, dove giunge la verità scompare la menzogna, dove arriva la Parola fugge il demonio.
Luce del mondo è Dio, sua verità è l'amore. La Parola è il Cristo crocifisso, che lo manifesta tutto a tutti.
L'annuncio di un Dio crocifisso per amore, ci strappa dalle mani del nemico, che ci tiene relegati nelle tenebre e nell'ombra di morte (Lc 1,74.79; Is 9,1; 42,7).
Solo la parola della croce ci cura dal male che inquina la fonte della nostra vita. Infatti ci libera dalla falsa immagine di un Dio vendicativo, e ci toglie la diffidenza che ci fa sentire abbandonati, paurosi e incapaci di amore.
La croce è la nostra unica salvezza e liberazione, perché ci porta a una vita filiale e fraterna, visibile qui e ora, in qualunque situazione strutturale, anche la più oppressiva, senza ipotizzare un mondo diverso o migliore. Questo non per giustificare l'oppressione, ma per romperne storicamente le radici. Di ciò erano sommamente delusi i due di Emmaus, che dicevano: «Speravamo che fosse lui a liberarci» (Lc 24,21). Volevano un altro tipo di salvezza, che in realtà sarebbe stata una conferma definitiva del male da parte di Dio, il quale avrebbe dovuto sposare i nostri criteri. Sarebbe stato un semplice cambiar le pedine, per continuare in eterno a giocare lo stesso tragico gioco. I due in ciò saranno seguiti da infiniti epigoni, tutti incurabilmente malati di millenarismo di diverso stampo, che si rifugiano negli opposti estremismi o si arroccano nei vari centrismi. Si tratta di «teologie da spiaggia», da godere sotto il solleone estivo o nel tepore autunnale; secondo i gusti e le età; sono «pornotheologien», ossia cattivi discorsi su Dio, direbbe un futuro buon dottore (Barth). Hanno sempre in comune l'ignoranza della croce, unico principio di ogni possibile discorso su Dio e vera croce di ogni teologia mondana.

All' annuncio del vangelo è conferito il potere su ogni specie di demoni e su ogni forza del nemico (Lc 9,1; 10,19) - anche sulla più terribile forza, quella del nemico più tremendo: il demonio sordo-muto, che, tappandoci l'orecchio all' amore, del Padre, ci rende inabili ad ascoltare e a rispondere. E il demonio di questa generazione incredula, che l'annuncio guarisce dove è almeno invocata la fede in esso (Mc 9,14-27).
Prima il nemico aveva potere su di te; ora tu hai potere su di lui. Prima eri suo schiavo; ora sei libero e lui è tuo schiavo.
Ma stai attento. Lui tenta di ribellarsi e cerca di riprendere il dominio perduto. Se prima la tua condizione era di tranquilla sudditanza, ora è di lotta per mantenere la libertà. Cristo infatti ci ha chiamati a libertà, e ci ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5,13). Bada di non ricadere nella schiavitù. La nuova condizione sarebbe peggiore di quella di prima (Lc 11,26).
Ricordati che la nostra battaglia non è contro i cattivi, che vanno amati di tutto cuore come i fratelli più amati dal Padre, ma contro il male che è in essi, come pure in noi.
Cristo odiò il peccato e amò il peccatore. Se non ami il peccatore, è perché ancora non odi il peccato che è in te. La nostra lotta infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro gli spiriti del male, dominatori di questo mondo di tenebre (Ef 6,12).
Solo la fede nell' annuncio - ossia la conversione di un cuore che conosce e crede all'amore di Dio per lui (1Gv 4,16) - è in grado di vincere questo male, che con inganno si è impadronito dell'interno di ogni uomo.


PARTE SECONDA

QUESTIONI PRATICHE

Dopo averti detto l'essenziale sul principio, i mezzi e il fine dell' apostolato, mi pare opportuno darti qualche suggerimento pratico che ti può essere utile per circostanze particolari.

Inculturazione

Ti troverai presso popoli che parlano, vivono e pensano in modo diverso dal tuo. Dovrai inculturarti.
Per questo non fare come tutti gli uomini, religiosi o meno, che amano la certezza più che la verità. Non essere un presuntuoso assertore di certezze, ma un umile ricercatore di verità. Questa è sempre più grande di ogni nostro pensiero, e rende timida ogni nostra sicurezza.
Esimiti dal dire ciò che sai; può essere insignificante per l'altro. Impara ad ascoltare ciò che senti; è sempre importante per te. Ascolta con grande rispetto, e rispondi solo se lo Spirito ti suggerisce qualcosa.
Non commettere l'errore di credere che l'inculturazione preceda l'evangelizzazione. È piuttosto conseguente. Chi ha accolto il vangelo, annunciato in povertà e nella potenza dello Spirito, scoprirà come viverlo nella sua situazione concreta.
Per questo tu preoccupati di spogliarti di tutto, anche di te stesso, per non annunciare te stesso, il tuo modo di parlare, vivere e pensare, invece del Signore di tutti. Anch'io mi sono fatto giudeo con i giudei, greco con i greci"e barbaro coi barbari (1Cor 9,19-22).
Anche se capiterà tra molti anni, forse due millenni, non ti nascondo che nascerà, all'improvviso o quasi, una nuova cultura, così distante dalla presente quanto questa lo è da Adamo ed Eva.
Sarà una cultura (o incultura?) potente come il bastone di Mosè, capace di fagocitare tutte le altre. Sarà un sistema unificato, a immagine di se stesso, con un unico linguaggio e un unico mercato, un solo modo di parlare e un solo modo di vivere: quello del più forte, che non sarà certo il più intelligente e rispettoso dei valori. Sappi però che questa è Babele più che Pentecoste.
Ci può essere anche una mondialità disumana, bestiale: Da questa bisognerà difendersi. Ma sarà bene tenerla presente, senza ingenuità, perché sulla destra e sulla fronte del credente non ci sia la cifra 666 - il suo agire e il suo pensare non sia quello della bestia (Ap 13,11-18).
Non bisognerà perdere di vista la complessità della situazione. Questa però non impedisca una valutazione critica, riducendo ogni scarto tra ciò che c'è e ciò che ci dovrebbe essere. Sempre con un occhio si guardi la realtà, ma con l'altro si traguardi la verità, la mèta verso cui camminare. Il pensare sia conoscenza precisa, ma non santificazione stupida dell' esistente. A questo fine sarà molto utile guardare bene, oltre ciò che differenzia i popoli, ciò che accomuna i poveri. E come il massimo comun divisore dell'umanità. I valori di una cultura li trovi sempre al di là della siepe, tra gli emarginati. Questi sono segnati sulla fronte della lettera «Tau»(Ez 9,4), gloria e salvezza potente di colui che si è identificato con loro, dicendo: «Quanto fate ai miei fratelli più piccoli, lo fate a me» (Mt 25,40): infatti «il più piccolo tra voi tutti, costui è il Grande» (Lc 9,48).
Il povero, in quanto residuo ultimo di umanità, è il «locus theologicus», ossia il luogo da cui si può parlare di Dio, conoscibile solo dalla verità dell'uomo. Per questo è il luogo privilegiato di ogni inculturazione.

Inculturazione e povertà

L'Inculturazione, al di là della ricchezza di tutte le argomentazioni teologiche, ti sarà possibile nella misura in cui sarai realmente povero in tutti i sensi. Se andrai con ricchezza, potere e cultura, dominerai sugli altri e li farai tuoi coloni, portando ovunque te e il tuo peccato.
Dalla tua predicazione nascerà una Chiesa debole, che stenterà a decollare, e i cui capi saranno amanti del denaro, del potere, del prestigio, del vino ecc. (cf. 1Tm 3,3).
E non lamentarti di loro. Rimprovera piuttosto te stesso, che sei stato loro modello.
Uno pensa e parla come mangia. Attorno al cibo - è la vita! - si struttura tutta la cultura, il modo di lavorare e di rapportarsi di un popolo. Dimmi come mangi, e ti dirò chi sei! Per questo «mangiate quello che vi sarà messo dinanzi», disse Gesù (Lc 10,9) e l'angelo ordinò a Pietro (At 10,13). Abituati quindi, per quanto possibile - quanto più, tanto meglio! - a mangiare, vivere e vestire come gli altri. Così entrerai nella loro cultura facendoti loro fratello, e testimoniando coi fatti ciò che annunci con la parola.
Se non ci riesci, sentiti colpevole. È giusto! Ma con tranquillità, senza cercare troppo di rimediarci. Rischieresti di fare del male. Non potendo fare te come gli altri, cercheresti di fare gli altri come te.
Il senso di colpa ti giovi per umiliarti davanti a Dio e al fratello. Conseguirai un duplice vantaggio: non ti metterai sopra l'altro e non ti sentirai a lui estraneo.
Gli manifesterai la tua buona volontà e la tua incapacità, chiedendogli perdono. Egli te l'accorderà volentieri, con il grande risultato che non si sentirà in colpa per non essere come te. Così non vedrà come bene il male e come male il bene.
Se dovesse avere invidia per te o cercare emulazione con te, ciò sia nell'abnegazione e nell'umiltà che vede in te.

Inculturazione e identità: preghiera, Parola e aiuto a cercare Dio

Ogni uomo ha bisogno di una identità.
Non farla consistere nella tua cultura, bensì in ciò che mette in crisi e salva la cultura tua e altrui.
Comincia presto e continua sempre a imparare a pregare, leggere la Parola e aiutare le persone nel cercare e trovare Dio.
Pregare, leggere e aiutare nella ricerca di Dio sono le tre cose che più facilmente si trascurano, perché non immediatamente operative. Questo è invece l'albero che dà frutto. Queste tre cose sono necessarie, e le puoi fare a tutte le latitudini e longitudini, e senza soldi. A differenza di altre, con il passare degli anni puoi farle anche meglio. E più sei povero, meglio le fai!
Se fai consistere in questo la tua identità, sarai in grado di procedere verso una inculturazione vera.
E sarai agile anche nel reinculturarti quando tornerai nella tua patria. Non sarai un disadattato, un leone in gabbia o un leviatan in piscina.
Diversamente sarai come la lumaca: ovunque andrai, ti porterai la tua casa, ricostruirai il tuo ambiente abituale. Ti aggrapperai a tutto ciò che hai e fai, per sapere chi sei, e non morire d'inerzia o d'angoscia.

Inculturazione e valori religiosi: la croce

Le grandi religioni, a differenza delle sette, hanno la capacità di formare cultura, proponendo valori vivibili da molti, in situazioni diverse e in modi molteplici.
La fede in Gesù Cristo ha la capacità di adeguarsi a tutte e di trasformarle tutte.
Ogni religione, più o meno, vuol essere un cammino per salire a Dio e piacergli. Per questo lega o rilega l'uomo con delle leggi morali e culturali.
Il Signore Gesù invece non lega, ma scioglie l'uomo, e lo rende libero di rispondere al suo amore.
Per questo annuncia la croce di un Dio che ha tanto amato gli uomini fino a scendere tra loro e portare su di sé i loro peccati, per restituirli a una vita filiale e fraterna, in perenne lode e rendimento di grazia al datore di ogni bene.

Predica Gesù Cristo, e questi crocifisso (1Cor 2,2). Il suo annuncio è liquidazione di ogni religione e di ogni ateismo, e salvezza per tutti. Ciò che ogni religione cerca - e ogni ateismo detesta (l'ateismo è sempre noiosamente religioso!) - è l'homo incurvatus, osservante e zelante, pieno di pietas e di eusebeia, possibilmente ottuso e fanatico. Il cristianesimo parla invece di un Deus inclinatus sull'uomo, per raddrizzarlo e renderlo libero. Se la religione, nella migliore delle ipotesi, è una «filotea», un' arte per amare Dio - cosa buona solo se uno s'accorge che gli è impraticabile! - il cristianesimo in- ' vece presenta innanzitutto l'amore di Dio per noi, la sua filantropia, ricca di sympatheia e di macrothymia verso tutti.
Su questo punto sta' attento ai facili irenismi e concordismi. Sii delicato ma fermo. La libertà, l'amore, la compassione e la tolleranza non si mercanteggiano.
Personalmente non so cosa più possa aiutare od ostacolare l'incontro con il Signore: se la religione, con le sue giuste leggi che confondono l'uomo, o l'ateismo, con il vuoto abissale che gli lascia nel cuore. Sono due vie diverse, con le loro peculiarità, ambedue da percorrere secondo l'opportunità. E comunque un dato di fatto che, dei due fratelli, il minore è il primo a tornare a casa; il maggiore, quello giusto, vuoI restare fuori (Lc 15). Il primogenito sarà l'ultimo a sedere al banchetto del Padre, e ci siederà solo quando si identificherà con l'ultimogenito (Rm 11,28-32). «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie (Rm 11,33)»!

La parola di Dio né semplicemente nega né semplicemente approva una cultura, qualunque essa sia. Chiama a conversione tutti, e offre a ciascuno un nuovo orizzonte di pensiero e di azione, rivelandogli la verità di ciò che è: figlio di Dio e peccatore, riscattato a caro prezzo.

E bene rispettare ogni cultura con le sue diversità. Ma non dimenticarti di rispettare la Parola di Dio e Dio stesso nella sua specificità, che chiama tutti a guardare e ascoltare il Figlio crocifisso (Mc 9,7). Solo lì conosciamo Dio (Mc 15,39) e ci convertiamo al suo amore. È questa la verità che ci fa liberi (Gv 8,32). Se mi sono fatto tutto a tutti, è solo per guadagnare il maggior numero a Cristo (1Cor 9,22.19). E lui che conta, perché è lui il Signore. Non la mia cultura, con i miei stupidi o intelligenti complessi di superiorità o di inferiorità.
Tutti i popoli hanno in sé cose buone, traccia della bontà del Figlio disseminata in tutta la creazione. Accettale ed evidenziale, per entrare con loro e uscire con loro verso il Signore.
Ogni cultura è però anche pesantemente segnata dal peccato. Per questo individua quali tradizioni degli uomini annullano il comando di Dio - che è l'amore dell'uomo - e, pur con tutto il rispetto, rifiutale (cf. Mc 7,8-13).
Sii semplice come colomba e prudente come serpente (Mt 10,16).
Sii semplice come un bambino quanto a malizia, non quanto a giudizio; in questo sii uomo maturo (1Cor 14,20). E, quando credi di sapere, cerca anche di sapere come bisogna sapere, perché non ogni sapere edifica. La scienza da sola gonfia (1Cor 8,2); per questo fai la verità nella carità (Ef 4,15).
Il Vangelo non parte mai da un ipotetico uomo ideale, come dovrebbe essere, per finire poi per tagliare la testa all'uomo reale, com'è. Parte invece sempre da un uomo negato, schiavo del male, della malattia e della morte - lebbroso, paralitico, sordo muto e cieco.
Prende in considerazione e ama l'uomo così com'è, senza mai identificarlo col suo male. Anzi, lo dissocia da esso, ponendolo come indebito, venuto da una causa esterna che diagnostica con cura.
E così è in grado di fare la terapia, prendendosi cura di lui, per guarirlo e restituirlo a se stesso.
I racconti di guarigione evangelici servono per farci conoscere questo procedimento, in modo che, riconoscendoci nel miracolato in questione, desideriamo, vogliamo e chiediamo anche noi il dono che è raccontato.

Inculturazione e potere

A causa del Vangelo io soffro in catene. Ma la Parola di Dio non è legata (2Tm 2,9). Verranno però tempi in cui si annuncerà il Vangelo al seguito dei potenti. L'appoggeranno in ogni modo, purché tu li appoggi o non li contraddica.
Preoccupati allora molto. Tu sarai libero. Ma la Parola di Dio sarà incatenata.
E quando ti insulteranno e ti perseguiteranno ingiustamente a causa sua, rallegrati (Mt 5,11 s.). La tua fedeltà al Signore sarà come oro, purificato nel fuoco sette volte (1Pt 1,7).
Guai a te quando ti capiterà o cercherai il contrario (Lc 6,26).

Inculturazione e riappropriazioni varie

Nel gregge che il Signore si costruirà, sorgeranno periodicamente tendenze a «riappropriarsi» di ciò che si ritiene più proprio. E giustamente. Ma poche parole sono più contrarie di questa a quel Dio che si è espropriato di tutto ciò che è suo per amore nostro. A questo scopo si serviranno di Dio e della sua parola, facendo varie teologie appropriate a tali appropriazioni debite o indebite.
Ma, se guardi bene, in ogni cultura il problema è uguale: l'uomo si serve di tutto e di tutti per avere potere I ed apparire di più, sempre di più. E questo è il peccato che distrugge lui e la sua storia.
Un peccato poco originale, perché comune a tutti fin dall' origine.
Il corvo lo riconoscerai sempre dal suo grido e dalle sue penne, come anche dal suo amore per le immondizie.
Tu comunque abbi pazienza, e vedi in questi errori lo specchio perfetto dei tuoi. Abbi quindi indulgenza con gli altri, ma molto discernimento e severità con te. Stat crux, dum volvitur orbis!

Cristianesimo e modernità

La modernità è crisi del vecchio. Non può quindi essere altro che la morte. Ed è naturale che sia così. Tutto è finito, e deve finire!
Il problema è se l'ultima parola è la fine o il fine.
Quando non c'è speranza di un fine, la modernità è sempre distruttività. Spinto dalla paura della fine inevitabile, l'uomo non può che anticiparne per vertigine la mossa vincente. Ma anche quando la sua speranza è solo ideale, non va meglio: ciò che muore è sostituito da un cadavere che già puzza.
Per questo detesta tutte le ideologie, comprese quelle buone - pretendono sempre di essere tali! Più illudono, più deludono. Illusione e delusione, monotono pendolo di chi vuole felicità senza fare i conti con la realtà! La felicità, chi la cerca non la trova. E un omaggio offerto in dono a chi, facendo ciò che è bene, cerca ciò che ama e ama ciò che trova.
Ci sarà un tempo in cui, per la puntuale smentita di ogni promessa ideologica, non ci sarà più speranza, né di evoluzione, né di rivoluzione.
Soddisfatti, almeno come possibilità, i bisogni animali provvedendo all'utile, si farà consistere il bisogno d'essere uomo - fuoco che arde e non si estingue - nel consumo del futile. Ci si esporrà all'effimero e al caduco, bruciando l'attimo fuggente. Non ci sarà più né passato - è il presente purificato attraverso il crogiolo del tempo - né tanto meno futuro. La stessa memoria per vivere sarà esterna. All'uomo non resterà che la «memoria mortis», destrutturazione e distruzione di tutto ciò che ha ed è.
Il piacere, fiume che dovrebbe essere dell' oblio, ne alimenta il ricordo. Infatti è acqua che dà sete. Solo la gioia è acqua che disseta.
Il cristianesimo non è di sua natura tradizionalista o conservatore; non si oppone alla modernità. Nonostante tutti i pii tentativi, cominciati subito appena possibile, il corpo di Cristo non si riuscì a imbalsamarlo. La nostra tradizione da conservare è la memoria di un novum assoluto tanto desiderabile quanto impensabile.
Il cristianesimo è crisi del vecchio e sua morte, ma non in nome di una «memoria mortis», bensì di una «memoria vitae»: il Signore Gesù, come conseguenza ultima di una vita tutta spesa nell' amore, ha svuotato il sepolcro. Questo è il fatto da ricordare, da portare-al-cuore di ogni presente, aprendolo al suo futuro e rompendone il guscio mortale.
Alla memoria della fine, ineluttabilmente vitanda e inevitabile, il credente sostituisce la memoria del fine, liberamente amato e perseguito.
La modernità distruttiva, che cancella il tempo, cede il passo alla modernità costruttiva. N asce la possibilità di un cammino, di una storia con un prima e un dopo rispetto al qui e ora. Il presente non è più un punto inesistente sospeso nel vuoto, ma ponte da una riva all' altra. Ciò che era si fa memoria, capacità di progettare e fare ora ciò che ancora non è.
Il cristianesimo si differenzia dall'ideologia perché non celebra un'ipotesi futura, bensì la memoria di un fatto che non solo è stato, ma anche ha la forza di fecondare il presente e anticipare il futuro. Il passato è padre di un presente in grado di generare il suo futuro. Il tempo non è più l'attimo irrepetibile - solo la morte è irrepetibile! - ma il crescere paziente e quotidiano del novum.
Ogni realtà non è un prodotto con scadenza immediata, da consumarsi all'istante, che subito sfugge. Tutto è tessera di un mosaico che la mano sapiente di Dio sta eseguendo. Nella nostra storia egli va disegnando il volto stesso di suo Figlio, fino a quando sarà tutto in tutti (1Cor 15,28).
Questo, e non un altro migliore o possibile, è il mondo che Dio ama e nel quale agisce. Quindi non dire con semplice nostalgia o con vuoto desiderio: «Ci fu un tempo», o «ci sarà un tempo». Ciò che fu e ciò che sarà non è. Dio invece è colui che è. Per questo il tempo migliore è sempre il presente. Infatti è l'unico che c'è, nel quale incontriamo la Presenza di colui che è.
Certamente la realtà in cui viviamo è complicata e lo sarà sempre di più. Non fare indebite semplificazioni.
Tu con un occhio cerca di abbracciarne tutta la complessità. Ma non fare di questa l'alibi al discernimento e alle scelte. L'altro tuo occhio sia rivolto con purezza all' azione di Dio, di cui già ti è stata donata la memoria.
Senza questo strabismo, non sarai né uomo né credente. Negherai infatti sempre la realtà dell'uomo e quella di Dio, che in essa opera e non altrove.

Unità e diversità

Gesù non vuole fare di tutti gli uomini un solo ovile, come spesso erroneamente si dice. Non vuoI rinchiudere nessuno in un recinto. Anzi, come ha condotto fuori dal recinto Israele, così porta le sue pecore fuori da tutti gli steccati, per guidarle ai pascoli della vita. Al chiuso infatti le pecore sono solo munte e tosate, e muoiono di fame.
Non quindi un solo ovile, ma esodo da ogni recinto, per formate un solo gregge e un solo pastore (Gv 10,4.16). Un popolo di fratelli, uniti attorno al Figlio! Tutti i vari ministeri nella Chiesa servono a questo.
Un'unità sì fatta regge la sollecitazione di ogni diversità, peraltro voluta da Dio come espressione della multiforme sua ricchezza, contro ogni appiattimento e riduttività.

Impermeabilità delle grandi religioni

Ti chiederai: «Perché le grandi religioni sembrano restare refrattarie all' annuncio, anche dopo mille e più anni?».
Ti risponderò dicendo: Primo, perché i piccoli sono sempre privilegiati (Mt 11,25). Infatti Dio resiste ai superbi e agli umili dà la sua grazia (Pr 3,34 LXX; Gc 4,6). Secondo, perché noi non stiamo con Cristo, e lo annunciamo nella potenza e nella sapienza della carne, non in quella dello Spirito.
Con le tue opere buone potrai adescare solo uno che abbia bisogno del tuo aiuto materiale. Con il dono accetterà anche la confezione, che però scarta e butta via.
Ma uno che abbia una forte religiosità o non abbia bisogno del tuo aiuto, non ti ascolterà mai. Vedrà in te il filantropo o l'impresario di opere buone, o addirittura il colonizzatore culturale. Per questo ti loderà, ti apprezzerà o ti detesterà. Ma non si volgerà al Signore, bensì solo a te, anche con sentimenti contraddittori.
Solo se vedrà in te uno che prega, sta con il suo Signore e lo testimonia nella potenza dello Spirito, potrà convertirsi a lui.
N elle grandi religioni entrerai solo se sarai uomo di Dio, e annuncerai Gesù Cristo, e questi crocifisso (1Cor 2,2). Ciò che è scandalo per i religiosi e stupidità per i sapienti, è potenza e sapienza di Dio (1Cor 1,22 ss.), a salvezza di chiunque l'accoglie (Rm 1,16).
Cominceranno sempre per accoglierlo i poveri e quanti, come loro, avendo fame saranno in ricerca di ciò che possa saziarli.

Fede: esperienza personale e diretta di Dio

Ricordati che la fede, anche se è per tutti, non è mai un fenomeno di massa. Questa è una somma di individui, dove ognuno è per sé. Manipolabile a piacimento e sempre giocabile sull'interesse, non forma mai un popolo.
Il popolo di Dio invece è fatto da persone libere che hanno fatto esperienza del Signore.
La persona è tale per il suo rapporto unico e irrepetibile con lui: è suo partner. Incredibile dignità dell'uomo!
«Il mio diletto è per me e io per lui» (C t 2,16). La fede è una relazione di appartenenza mutua, in cui l'uomo realizza la sua dimensione più profonda. Immagine del Dio amore, non solo ha bisogno di compagnia, ma è anche, e soprattutto, bisogno di «essere di» qualcuno. Chi è di nessuno, è del nulla. Non esiste!
Senza questa esperienza, lo stesso battesimo è semplice rimozione di sporcizia (1Pt 3,21), non lavacro di rigenerazione e rinnovamento nello Spirito (Tt 3,5).
Il sì a Dio non è frutto di indottrinamento, con cui si appiccicano o si mettono dentro idee nuove, anche buone. E amore personale per Gesù, come risposta alla conoscenza del suo amore per me, testimoniato dalla parola della croce. Questa, come è udita dall'orecchio, ha il potere di muovere il cuore a consentire liberamente - a tempo e modo suo - perché alfine ognuno possa dire: «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

Catechesi: non ideologica, ma storico-narrativa

Ci possono essere vari catechismi, «idioti» o «ecumenici», ossia particolari o universali. Sono molto lodabili in sé e utili all'umiltà di coloro che li scrivono, i quali, lungi dal correre il pericolo di inorgoglirsi, rischiano di raccogliere un manipolo di ventiquattromila critiche. Essi danno, tanto al lettore che al compilatore, l'opportunità di farsi una panoramica di tutta la dottrina, anche se vista dall' angolo angusto di quel momento. E comunque da dire che questi scritti, peraltro buonissimi, non sono sempre tanto profittevoli come si desidererebbe.
Per questo nella nostra tradizione più che millenaria la catechesi del popolo è sempre stata la Parola del libro che, narrandoci di Dio, ce lo rivela.
La nostra fede non si radica in un'ideologia o in un'illuminazione, bensì in una storia, in ciò che egli ha fatto e fa per noi. È quindi una realtà, indeducibile e improducibile, che, come ogni altra, è oggetto di comprensione e di racconto.
Per questo è necessario che la nostra catechesi, più che proporre nozioni astratte su Dio, che poi si incollano a Cristo, racconti la storia di Gesù, esegesi del Dio ignoto (Gv 1,18), Verbo dell'Ineffabile, Icona dell'Invisibile (Col 1,15).
Mentre le idee hanno significato diverso secondo le diverse culture, le cose e i fatti hanno un' evidenza propria, uguale per tutti, anche se di spessore sempre diverso col progredire dell' esperienza di ciascuno.
Il sole scalda e l'acqua irriga, il giorno è chiaro e la notte buia, la vita bella e la morte brutta ovunque, pur con tutte le infinite gradazioni.
Inoltre: mondare un lebbroso e far saltare un paralitico, liberare dal male e dalla morte, vivere e morire per l'altro significa per tutti la stessa cosa, pur con peso specifico diverso per ognuno.
La verità di Dio nessuno la conosce. Solo il Figlio ce l'ha spiegata (Gv 1,18). Ce l'ha manifestata in ciò che ha detto e fatto per noi, e soprattutto in ciò che si è fatto per noi, dicendoci tutto il suo amore nel darci se stesso.
Non le nostre idee, ma la sua carne ce la fa conoscere. Questa è il criterio supremo della nostra fede e di ogni discernimento spirituale (1Gv 4,2). È quindi dottrinalmente più sicuro e pastoralmente più profittevole parlare di lui, più che delle nostre idee e interpretazioni. Le quali hanno per altro un ruolo determinante nella teologia.
Essa, necessaria riflessione sull' esperienza di fede, senza questa diventa riflessione sul nulla, pura logologia, parola su parole udite ma non capite.
Proprio e solo nella carne di Gesù ascoltiamo, udiamo e tocchiamo chi è Dio per noi, e chi siamo noi per lui.
Il luogo ermeneutico oggettivo da cui capire le Scritture sia sempre l'eucaristia, memoria vivente del Risorto crocifisso per noi, nell' attesa del suo ritorno. È la realtà di cui tutta la bibbia parla, l'A.T. come promessa e il Nuovo come spiegazione.
Somma di tutti i doni di Dio, Dio stesso come sommo dono, essa ci dà tutto ed è tutto, come dirà in futuro qualcuno.
Il luogo ermeneutico soggettivo sia l'identificazione con il malfattore, ingiusto giustamente giustiziato, e con 'empio giustiziere di Gesù. Illadrone e il centurione, rei confessi, sono gli unici ermeneuti autorizzati della croce: riconoscono e accettano il Signore nello scandalo del suo eccessivo amore per noi (Ef 2,4).

Matrimonio e verginità: espressioni diverse dell'unico amore

L'uomo è il sì che dà come risposta al sì che il Signore dice a lui.
Il matrimonio è un grande mistero (Ef 5,32), proprio come immagine e somiglianza di questo amore tra Dio e uomo, come fra sposo e sposa.
L'uomo è radicalmente incompiuto e mancante. Ha bisogno dell' altro per essere se stesso. Ma non di un altro qualunque, bensì dell' Altro. Dio è l'altra sua parte!
Il matrimonio è segno di ciò che si vive in pienezza nella verginità. Questa manifesta visibilmente il destino sublime di ogni uomo: l'amore totale e assoluto per il Signore, comando fondamentale per Israele (Dt 6,4 ss.) - primogenito di ogni popolo e figura di ogni persona.
Il segno particolare della verginità non sarebbe stato necessario se non ci fosse stato il peccato, che ha posto tutto sotto il dominio del possesso e della morte.
Anche se è vero che non tutti capiscono per sé questa parola (Mt 19,11), tutti almeno capiranno l'eccellenza in sé della verginità per il regno di Dio - anche quelle culture che sono meno adatte, come per esempio la nostra greco-romana!
Dio susciterà a suo piacimento il carisma della verginità, dove, quando e come vorrà. Ma non può essere imposto a nessuno. È infatti meglio sposarsi che bruciare (1Cor 7,9).
Il cuore dell'uomo è un abisso. Fatto per l'infinito, è un vuoto incolmabile che desidera essere riempito. Natura abhorret a vacuo! O amerà il Signore, o cercherà invano di colmarsi di ciò che non lo colma. Capacem Dei quidquid Deo minus est non implebit.
Metti in rilievo ovunque e comunque la dignità della persona, che è pienamente tale nel suo libero rapporto d'amore con Dio.
Solo così è comprensibile la verginità. Lo stesso matrimonio, sottratto al livello animale di pura conservazione della specie, diventa specchio del suo amore fedele.
Circa la verginità vorrei che tutti fossero come me, per amare il Signore con cuore indiviso (1Cor 7,7). Ma non può essere imposta a nessuno né deve essere necessariamente legata ad alcun servizio. È piuttosto un dono che il Signore ha concesso a qualcuno per testimoniare a tutti quell' amore per lui che è la vita di ogni uomo.
Essa non è né facile né difficile. È impossibile all'uomo, se non nella misura in cui gli è donata e lui stesso la coltiva.
Non consiste nell' essere «scapoli», più o meno felici o infelici. E un amore appassionato e sponsale per il Signore, che trabocca in amore gioioso per i fratelli, soprattutto per gli ultimi.
La verginità è un fiore che trova nella povertà la terra, nella preghiera l'acqua e nell' amore il sole per vivere e crescere. Senza povertà, senza preghiera e senza amore ti sarà impossibile.
Se tu farai così, anche altri, vedendolo in te, scopriranno in sé lo stesso dono di Dio.

Desiderio di comandare

Comune a tutte le creature è la libido del potere: comandare e apparire grandi, o, almeno, «più grandi» degli altri (Mc 9,34).
Dopo di te ci saranno dei tuoi successori che faranno come i capi di questo mondo, che dominano ed esercitano il potere (Mc 10,42). Spadroneggeranno sulle persone loro affidate (1Pt 5,3). Invece di essere collaboratori della loro gioia, intenderanno far da padroni della loro fede (2Cor 1,24). Non meravigliarti di questo.
È frutto del peccato di Adamo, che si scoprì nudo, e, non accettandosi, cercò di essere diverso da sé, «più» grande appunto. Tale grandezza non supera comunque mai una foglia di fico, che a mala pena copre ciò che si ritiene la propria vergogna o piccolezza. Più che scandalizzarti di questo, esaminati bene. Il colpevole sei tu, perché non ti sei presentato in povertà, servizio e umiltà, ma come uno che ha, può e vale.

Apostolo e pastore: differenza da non sottovalutare

C'è sempre diversità di carismi nella Chiesa, e non vanno appiattiti e ridotti a uno.
Non confondere l'apostolo col pastore.
Il primo è servo della preghiera e della Parola, inviato ai lontani, fino agli estremi confini della terra, per fondare la Chiesa.
Il secondo è amministratore sapiente di una Chiesa già fondata, che conduce le pecore al pascolo.
Stai attento che la figura del pastore residenziale non annulli quella dell' apostolo itinerante in povertà. La Chiesa rischierebbe di chiudersi alla sua dimensione apostolica e cattolica, rendendosi insensibile all' amore del Padre che urge e invia ai fratelli più lontani.
Alle volte, la nascita d'una Chiesa con le sue strutture ab intra, rischia di segnare la fine della Chiesa con la sua spinta necessaria ad extra.
Il pastore non dimentichi mai la dimensione apostolica. A lui Gesù, supremo pastore, chiede, come al lebbroso guarito che tornò indietro a fare eucaristia: «E gli altri nove tuoi fratelli, che non sono qui con te, dove sono? Non sono stati tutti mondati dal mio sangue, versato per loro?» (cf. Lc 17,17).

Carità: essere poveri
ed educare la domanda del vero pane

Ti troverai spesso tra gente che manca di tutto. E ti ricorderai delle parole di Gesù: «Avevo fame, avevo sete, ero nudo, ecc.» (Mt 25,34 ss.).
Inoltre la gente non chiederà da te la Parola, ma il pane e il vestito.
Tu ti sentirai in colpa, perché non manchi di nulla. E, per riparare a questo, invece di essere apostolo, sarai tentato di diventare impresario. Oltre tutto, questo è più facile, più gratificante e più «concreto».
Anche Gesù si è trovato a operare in situazioni simili. Tra l'altro aveva anche la possibilità di moltiplicare il pane sfamando tutti e di imporre le mani guarendo tutti!
Ma non sfruttò i suoi doni in tale senso. Moltiplicò il pane; ma come segno di un altro nutrimento, che è il dono di sé che farà sulla croce. E fuggì da chi credeva di aver trovato in lui la fonte del suo cibo (Gv 6, 15).
Guarì pure un paralitico alla piscina di Betesda; ma per rivelare la misericordia del Padre, che sempre opera a favore dei suoi figli. E subito se ne andò - anche se lì giaceva ancora un gran numero di infelici, ciechi, zoppi e paralitici (Gv 5,3.13) - per finire lui stesso immobile sulla croce.
Gesù ha saputo non cedere alle attese errate dei suoi. L'uomo da sempre confonde salvezza con salute!
Educò invece la loro domanda, perché gli chiedessero ciò che era venuto a portare. E non temette il rifiuto. Anzi, fu proprio rifiutato per il suo rifiuto di rispondere alle attese comuni. Deluse tutti, e tutti sfogarono su di lui la loro rabbia e amarezza.
Guardati dal falso spiritualismo, al quale non importa il pane e la libertà del povero.
Ma guardati anche dal materialismo. Sappi che il vero cibo dell'uomo è fare la volontà di Dio (Gv 4,34), e la sua libertà quella di essere figlio.
Questo pane e questa libertà, necessari tanto al povero quanto al ricco, mancano a tutti e due. Proprio per questo c'è il ricco e il povero.
Il pane che tu devi dare rende realmente figli e fratelli, capaci di amare non a parole, ma con i fatti e in verità (1Gv 3,18).
Esso impoverisce il ricco e arricchisce il povero, dando ad ambedue la vera vita.
Davanti alla morte tutti saremo poveri e senza libertà di scelta. Quelli che tu avrai sfamato, cesseranno di mangiare; quelli che avrai guarito, periranno; quelli che avrai liberato, non sapranno che fare.
Non credere quindi che il pane, la salute e la libertà materiale siano beni assoluti, irrinunciabili e necessari. Chi li crede tali; ne diventa schiavo; e ne priva gli altri, privando se stesso del vero pane.
Il cibo che tu devi dare è quello che vince la disperazione di chi non ha speranza: è capacità di donare, qui e ora, a chiunque l'accetta, quella vita fraterna di figli, che dura in eterno. Essa è offerta a tutti, in qualunque situazione si trovino; anche, e soprattutto, a chi è bisognoso di tutto, esposto a ogni male, perfino a quello estremo, che è la perdita della vita.

Carità e altri carismi

Non fare tutto il bene possibile. Lascia qualcosa anche agli altri!
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (1Cor 12,7). Ognuno ha il suo dono da donare al fratello.
Non essere avido e non accaparrarti tutti i doni! Distruggeresti te e la Chiesa di Dio.
Riconosci il tuo dono dal Signore; sii contento di servire con quello i fratelli. I nostri limiti ci permettono di entrare in comunione di amore e servizio reciproco, partecipando nel tempo alla danza eterna di Dio stesso, nel suo respiro vitale di dare tutto e tutto ricevere.
Quando, fin dall'inizio, sorse a Gerusalemme il problema della «caritas», gli apostoli capirono meglio il loro carisma, e lasciarono ad altri il servizio delle mense (At 6,4).
Quando avrai tante cose da fare a favore dei fratelli, e non avrai più tempo per dedicar ti assiduamente alla preghiera e al servizio della Parola, preoccupati assai. Significa che non sei più apostolo e sei venuto meno alla tua chiamata.
Sappi che è carità verso l'altro anche il non far tutto.
Non umiliarlo con la tua pretesa onnipotenza.
Sappi che è carità verso l'altro anche riconoscere il proprio limite. Umiliati, riconoscendoti nella comune condizione mortale.
Sappi soprattutto che la più grande carità verso l'altro è condividere la sua impotenza e annunciargli che Gesù è il Signore mio e suo.
I tuoi due doveri fondamentali sono parlare a Dio degli uomini e parlare agli uomini di Dio, e ricordati che il secondo parlare deriva dal primo la sua efficacia.
Ricordati anche che parlare a Dio degli uomini è più efficace che parlare di Dio agli uomini.
Individuato il tuo carisma, sii contento che altri facciano altro, senza metterli in questione e sentirti messo in questione dalla diversità.
Siamo un solo corpo, ma non un solo membro. La pluralità delle membra è necessaria perché l'unico corpo viva nell'unico Spirito, che è amore e dono mutuo.
Il tuo servizio ai poveri è quello di tipo più difficile: è la tua stessa povertà, che ti rende solidale con loro, capace di testimoniare il Figlio di Dio che si è fatto nostro fratello.
Hai rinunciato una volta per tutte a tutto, per essere solidale con tutti e poter annunciare ai poveri la comune speranza.
Se guardi bene, vedrai che spesso la tua carità è per tacitare i tuoi sensi di colpa o di impotenza. Non mancando di nulla o non potendo fare tutto, invece di fare come il Signore che si abbassò e condivise la nostra sorte, cercherai di alzare gli altri alla tua. Così mostrerai la tua superiorità e li fisserai nella loro inferiorità, continuando a dare cose senza più trovare il tempo per annunciare il Vangelo.
La gente ti chiederà ciò che tu dai. E tu darai ciò che hai e l'altro non ha.
Per questo, l'unica cosa che tu hai in più dell' altro sia solo il Signore Gesù, che desidera comunicarsi a lui come a te.

«Beati i poveri»

Qualche volta non saprai se annunciare: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno» (Lc 6,20), o se dar da mangiare a chi ha fame, per entrare tu stesso nel Regno (Mt 25,31 ss.).
È un falso dilemma.
Il tuo servizio è quello «della» fede, che porta l'uomo a conoscere e amare il Signore che per primo lo ha amato.
Dar da mangiare ai poveri è quel servizio «dalla» fede, che porta il credente ad amare il fratello come lui ci ha amati.
È chiaro che quando hai da mangiare, devi darne a chi non ne ha. Ed è chiaro che, se uno ha fame e tu hai pane, ti chiede pane.
Ma chi mangia di questo pane avrà ancora fame; e morirà (cf. Gv 6,49 ss.), per quanto tu gliene dia.
Quando anche tu sarai povero, potrai annunciare ai poveri la loro beatitudine, che è la tua stessa, e testimoniare loro la grazia del Signore Gesù, che da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà (2Cor 8,9).
Per questo il Signore ha disposto che coloro che vanno ad annunciare, sia apostoli che discepoli, lo facciano in povertà (Lc 9,1 ss.; 10,1 ss.). Non è un consiglio. È un ordine (Mc 6,8)!
Anch'io ho organizzato collette (Rm 15,26; Gal 2,10).
Ma non per sfamare i pagani poveri, in modo che credessero all' annuncio; bensì come segno di solidarietà con i santi di Gerusalemme, verso i quali i gentili si sentivano debitori per aver partecipato ai loro beni spirituali (Rm 15,25-27).

Evangelizzazione e promozione umana: ambiguità

È inadeguato distinguere tra evangelizzazione e promozione umana, quasi bisognasse togliere l'uomo dall'ingiustizia e dalla povertà per potergli annunciare l' evangelo.
È vero che non bisogna collaborare con chi fa ingiustizia. Qualora lo si avesse fatto o lo si faccia, bisogna convertirsi. Ma non è bene, per liberarsi dai sensi di colpa, cadere nella stessa logica di chi si vuole combattere. Al di là di ogni illusoria promessa, stesse premesse danno uguale risultato.
Sappi che la prima promozione dell'uomo è l'annuncio stesso dell' evangelo, che gli dona la sua dignità di figlio e gli dà la possibilità di vivere da fratello, vincendo la radice stessa dell'ingiustizia che tiene schiavo il cuore di ogni uomo.
Solo da questa radice nuova nasce lentamente il mondo nuovo e la sua libertà. Diversamente si rimane nel cerchio del mondo vecchio, che gira sempre allo stesso modo, alternando di continuo il sopra ed il sotto, l'oppresso e l'oppressore, ma senza mai cambiare gioco.
Non defraudare anche del bene del Vangelo chi è privo di tutto. Concedi al povero la ricchezza che gli è propria, e che è quella vera!
La tua carità verso di lui non sia aver cose da dargli. Sia l'avergli già dato tutto e l'essergli fratello, in modo che capisca la sua dignità di figlio.

Carità intelligente

Ugualmente ti capiterà, di quando in quando, di esercitare la carità materiale, come a tutti. E a tutti dovrai anche insegnarla.
Ricordati e ricorda che non sia mossa soltanto dalla buona volontà, ma illuminata dall'intelligenza. Una carità cieca fa il povero ancor più povero, rendendolo dipendente e deresponsabilizzato, inducendo gli bisogni che prima non aveva.
In molti paesi poveri uccide più la carità che la carestia, e gli aiuti servono a perpetuare ingiustizie e guerre.
Non tocca a te risolvere i problemi economici, sanitari e politici di un popolo. Cristo non l'ha fatto, anche se avrebbe potuto. La gente da lui si aspettava questo, e non lo accolse perché non soddisfece le loro brame.
Se tu riuscissi a farlo, diventeresti potente. Schiavizzeresti peggio degli altri padroni, e guasteresti l'evangelo, riducendolo a nuovo strumento di dominio.
In genere non riuscirai a tanto. Riuscirai tuttavia sempre egregiamente a evitare l'annuncio dell' evangelo e ad impedirlo a chi verrà dopo di te per qualche generazione.
La carità non consista nel risolvere il problema del fratello, ma il tuo problema di essergli fratello.
Non devi sfamare gli affamati. Devi solo condividere il tuo pane con la fame dell'altro (Is 58,7). Così farai quel gesto, semplice e possibile a tutti, che, se tutti lo fanno, risolve veramente il problema.
La fame infatti c'è perché non c'è solidarietà. Altre soluzioni, anche se apparentemente più efficaci, sono in realtà possibili solo al ricco che causa la fame.
Invece di dare per misericordia un linimento a chi percuoti, smetti di percuoterlo. Invece di dare l'elemosina, non vivere in quel modo che causa la povertà.
Anche se non sembra risolvere immediatamente nulla - e anche se ti costa molto di più! - la solidarietà e la condivisione è l'unica via per togliere il male. Non la povertà è il male, bensì l'ingiustizia che ne è la causa.

Rapporti col povero

Il povero non entri nella tua casa solo come servo, cuoco e uomo di fatica.
Non ci siano recinti, cani e guardie per difenderti da colui al quale sei inviato ad annunciare l'amore del Padre. Sia tuo ospite, fratello, commensale e collaboratore.
Secondo la grazia che Dio concede a ciascuno, favorirai ogni desiderio tuo e altrui che va nel senso di una maggiore povertà e condivisione.

Il vero male

A tutti fa paura aver fame, subire ingiustizie, essere uccisi. E per questo che si accumula cibo, si affama l'altro, si fa ingiustizia e si uccide.
Tu conosci l'inganno. Quindi temi non di aver fame, ma di affamare, non di subire ingiustizia, ma di farla, non di essere ucciso, ma di uccidere. Non temere quelli che uccidono il corpo, e dopo non possono far più nulla (Lc 12,4).
Quando sarai affamato, perseguitato e ucciso, beato te. Sarai in questo simile ai profeti (Mt 5,11 s.) e, soprattutto, al tuo Signore.
Il vero male è fare il male, non portarlo.
A noi invece spiace portarlo, non farlo. Per questo siamo nel male e lo operiamo.
Chi lo fa, non lo porta. Ma chi lo porta e non lo fa è in grado di vincerlo, appunto perché non lo fa e lo porta. È associato al mistero dell' agnello; che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29).
La tua vita diventi martirio, ossia testimonianza dell' amore del Signore Gesù, ucciso per la sua debolezza e quindi vivificato per la potenza di Dio (2Cor 13,4).

Eresie teoriche: verità parziali

Ovunque e sempre ci saranno eresie.
Eresia significa «scelta». Si sceglie dal tutto una parte che solo nel tutto ha il suo senso. L'eresia più normale sarà quella di scegliere la gloria senza la carne, la risurrezione senza la croce, la libertà senza i costi della liberazione, i frutti senza la fatica del lavoro.
Tu tieni sempre insieme i due, ponendo il lavoro prima dei frutti, i costi prima della libertà, la croce prima della risurrezione e l'umanità di Gesù come luogo in cui si è rivelata pienamente la gloria di quel Dio che nessuno mai ha visto.
Ci sarà sempre la tentazione di negare, ignorare o sottovalutare la sua carne. Ma è il limite dell'uomo, che Dio si è preso per manifestarsi a lui.
Cardo salutis caro!
La concretezza della persona di Gesù - la debolezza della sua carne - è lo scandalo ineliminabile della fede in un Dio che è amore, simpatia e solidarietà totale con noi. Ma insieme è anche l'unica salvezza possibile della nostra storia concreta.

Eresie pratiche: scelte mondane

Oltre le eresie teoriche, ci saranno eresie pratiche, non meno pericolose. Queste riguarderanno la scelta dei mezzi.
Sarai tentato, come già ti ho detto, di usare come mezzi di evangelizzazione quelli che il Signore Gesù scartò come tentazione: l'avere, il potere e l'apparire.
Allora non sarai suo testimone. Sarai solo di ostacolo alla manifestazione gloriosa del suo Regno.
Le persecuzioni e le sofferenze tue invece lo anticiperanno, facendoti completare nella tua carne ciò che ancora manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo, che è la Chiesa (Col 1,24).
Il maggior pericolo nel tuo ministero sarà sempre la mancanza di discernimento circa i mezzi al fine. Il fine non giustifica i mezzi. Il fine buono è raggiunto con quei mezzi che sono della natura del fine, come il seme dell'albero.
Chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere (1Cor 10,12). Chi non cade più, è solo perché sta già del tutto a terra!

Sette e divisioni

Sorgeranno anche sette e divisioni, che guasteranno la fraternità in Cristo, sostanza dell' evangelo.
Comune a tutte le sette sarà credersi migliori - e magari esserlo! - dimenticando che Cristo è morto per i peccatori. Dio ha tanto amato questo mondo di peccato da dare per esso il suo unico Figlio (Gv 3,16).
L'amore che viene da Dio Padre è necessariamente «cattolico», ossia rivolto a tutti i suoi figli, privilegiando i più bisognosi che sono i peccatori. Ha come modello Mosè, immagine di Cristo, che intercede a favore del popolo che ha peccato, disposto a dare la vita per esso (Es 32,33).
Ricordati che può essere settaria anche una Chiesa ortodossa, quando si chiude a qualcuno o si apre per proselitismo, non amando con lo stesso amore del Padre.
Le sette sorgeranno spesso dall'innata tendenza dell'uomo che lo porta a distinguersi dagli altri o a cercare sicurezza nella solidarietà «contro» gli altri.
Troveranno abbondante esca nel desiderio di dominio di qualcuno e nella paura della libertà, comune a tutti.
Incontreranno facile consenso offrendo risposte immediate e deresponsabilizzanti ai bisogni «religiosi».
Per vincere questo male bisogna che tu annunci l'evangelo, che apre il cuore a tutti i fratelli. Bisogna che tu rispetti sempre la libertà, che rende l'uomo simile a Dio. Bisogna infine che tu non dia mai risposte immediate a nessuno, ma ponga ciascuno davanti alla Parola di Dio che lo interpella, lasciando a lui la responsabilità, ossia l'abilità di rispondergli con la propria vita, se, quando e come può e vuole.
Nella Parola non cercare risposte. Cerca di risponderle.
Stai attento che l'humus favorevole alle sette è una situazione di Chiesa in cui la singola persona non trova possibilità di comunione e di identificazione. Per questo evita come la peste le strutture mastodontiche. Forse possono sembrare macchine efficienti per produrre servizi, ma sono deresponsabilizzanti. Nessuno in esse si sente di casa, accolto e a suo agio, e riconosciuto per quello che è.
Ricorda inoltre: la curiosità è madre della scienza e della tecnica, la meraviglia è madre della sapienza e della filosofia, disse un saggio gentile. E io aggiungo che 1'ignoranza a sua volta è madre del proliferare delle dottrine umane e divine. Chi sa, è esonerato dall'inventare sempre tutto di nuovo, è conscio che, oltre l'imbecillità propria e altrui, molto di nuovo sotto il sole non c'è. Il tronco ha radice e frutti; il presente ha passato e futuro. Sappi e fa sapere che sempre siamo inseriti in una storia da cui veniamo e che responsabilmente portiamo avanti. Chi non ha memoria, come non ha radici, non dà frutto. Senza passato e senza futuro, rimane privo di identità, per quanto s'affanni a costruirla.
La tradizione è il capitale che abbiamo ricevuto dai nostri padri e che trasmettiamo ai nostri figli. È il grande tesoro antidoto al settarismo.
Ma stai attento al tradizionalismo, che lo uccide. Perciò esorta sempre chi è ancorato al passato a scoprire la novità di Dio e chi intuisce il futuro ad avere la sua pazienza, capace di tempi molto lunghi.

Discernimento

Impara infine a discernere i sentimenti e pensieri tuoi. L'uomo non è libero di sentire o meno ciò che sente. Può però avvertire ciò che sente - quanta incoscienza! - e conoscere se è da Dio o meno - quanta ignoranza!
Acconsentire o dissentire, accogliere o respingere è l'unica libertà che sempre ci è concessa.
Ciò cui acconsenti, entra in te e cresce.
Ciò da cui dissenti, si allontana da te, fino a scomparire.
Per questo è indispensabile essere coscienti di ciò che si muove nel cuore, e discernere se viene da Dio per accoglierlo, o se viene dal nemico per respingerlo.
Innanzitutto sappi che i pensieri del Signore non sono i nostri pensieri (Is 55, 8). L'uomo nel peccato infatti cerca l'avere, il potere e l'apparire. Lui invece, che è amore, è povero, servo e umile.
Conoscerai il pensiero di Dio solo contemplando di continuo e con sorpresa sempre nuova la carne di Gesù, che smentisce l'immagine religiosa che di lui ha ogni uomo.
Dalla sua storia, e non dalle tue ovvietà religiose, impara a conoscere il Cristo secondo la verità che è in Gesù (Ef 4,20 s.).
Il «senso religioso», se non è purificato, è una scatola che contiene una cosa e il suo contrario. Può combinare un forte amore per il Signore e un'ignoranza assoluta su di lui. Infatti è inficiato dall'immagine satanica di Dio, propria a ogni uomo, religioso o empio che sia. Come Pietro, gabba anche tutti gli uomini di buoni sentimenti ma di scarso pensiero (cf. Mc 8,31-33).
Nonostante le tue resistenze contrarie, chiedi e prega di stimare l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto, come fece Mosè (Eb 11,26).
Chiedigli con insistenza di preferire di essere povero e disprezzato con lui, piuttosto che ricco e onorato senza di lui.
Solo nella misura in cui amerai e conoscerai la croce di Cristo, sarai in grado di conoscere e scegliere la via di Dio.
Ricordati che il Vangelo non abolisce la legge, ma la compie in tutta la sua pienezza (Mt 5,17).
Quando andrai contro di essa, il nemico ti incoraggerà, allettandoti con inganno. Il frutto proibito deve apparire bello, buono e desiderabile (Gn 3, 6). Ma sarà solo un piacere apparente che, una volta appagato, invece che sazietà, genererà fame ulteriore. Non il piacere, ma la gioia sfama il cuore. La distanza tra le due sensazioni costituisce la differenza nostra dall' animale, spazio inquieto che Dio ha dato al vagare della nostra coscienza.
Quando invece cerchi il bene, il nemico te lo impedirà con l'assillo di false ragioni: paure paralizzanti, angustie stringenti, tristezze scoraggianti. E per sfiducia che l'uomo omette il bene e commette il male. Il nemico è satana, l'accusatore che ti angustia nel bene, rinfacciandoti sempre il tuo male; è il diavolo, il divisore, che ti separa da tutto e da tutti, lasciandoti in solitudine desolata.
Dio invece ti consola in ogni tua tribolazione (cf. 2Cor 1,3-7)! Non ti lascia solo. E l'Emmanuele, il Dio con noi. Tu sei con lui e lui con te, concedendoti la sua presenza, il suo coraggio e la sua luce. Il suo Spirito è il Paraclito: ti difende dall' accusatore, ti consola nella desolazione. È gioia del Signore, forza per ogni bene (Ne 8,10).
Tale gioia il nemico cerca di impedirla, toglierla o disturbarla con tutti i mezzi. Per questo ti dico, e ti ripeto: sii sempre lieto nel Signore (Fil 4,4). Non contristarti di ciò che ti manca. Guarda l'essenziale, che già ti è stato donato. Il Signore è vicino (Fil 4,5): custodisci i tuoi pensieri in perenne rendimento di grazie al Padre, che ti ha messo con il Figlio e ti ha dato lo Spirito. Quando sei triste o hai paura, non decidere e non cambiare nulla.
Rimani fermo in ciò che il Signore ti ha donato di comprendere e di decidere quand'eri fiducioso e contento.
Quanto ti senti abbandonato da Dio e arido, invece di lasciare la preghiera, rinnovati, e approfondisci il rapporto con lui. Sei stato tu a lasciarlo. Torna a lui, che subito tornerà a te.
Se invece è stato lui a lasciarti, lo ha fatto solo per un momento, più o meno prolungato, per provare la tua fedeltà, farti conoscere la tua miseria e così svuotarti, per colmarti a suo tempo di doni maggiori.
Quando sei consolato, la sua presenza ti impregna del suo profumo. Allora prendi davanti a lui le tue risoluzioni. Ma con prudenza, senza esaltazione, presunzione e sconsideratezza.
Tieni presente che il nemico agisce mediante la paura, che funziona solo con chi si lascia prendere da essa; mediante la menzogna, che funziona solo con chi cerca di tenerla nascosta; mediante l'astuzia, che funziona bene con chi non conosce i propri punti deboli. Per questo rinnova la fiducia quando sei assalito dalla paura, rivela a persona esperta ciò che vuoi tacere, esaminati bene per conoscere le tue fragilità.
Sappi inoltre che solo Dio può dar gioia anche senza nessuna causa.
Egli è a te più interno di te stesso. Lo puoi trovare ogni volta che entri nel tuo cuore, con abbondanza di pace silenziosa e semplice.
Questa ti fa crescere dal bene al meglio, e ti permette di discernere se ciò che fai o decidi è a lui gradito o meno.
Per questo il nemico, come ti ho detto, cerca di insidiarla in tutti i modi, sia spingendoti al male per scoraggiarti, sia spingendo ti a un meglio sempre maggiore per toglierti la serenità.
Ogni inquietudine e tensione, ogni mancanza di gioia e di pace, ogni moto di paura o di ira, anche per cose buone, non è mai da Dio. E il modo con cui il nemico cerca di guastare il bene.
Perché una pianta sia buona, bisogna che tutto sia buono: terreno, radici, tronco, rami, fiori e frutto. Perché sia guasta, basta un baco nel frutto, una gelata sul fiore, una rottura del ramo, un fungo nel tronco, un grillotalpa alla radice, un prodotto nocivo nel terreno. Così il bene deve essere tale in tutti gli aspetti; al nemico basta rovinarne uno solo per tradurlo in male.
Le tue decisioni non siano mai prese sotto la spinta della paura o dei bisogni o di semplici analisi.
Non è conforme a nessun buon progetto pastorale l'alzarsi e l'andare a mezzogiorno su una strada deserta, dove non c'è nessuno. Ma proprio così inizia l'evangelizzazione dell' Africa (At 8,26). Il discernimento, soprattutto apostolico, viene dalla docilità allo Spirito. Sii perciò attento alle sue attrazioni. In mancanza di sue indicazioni indubitabili, quando devi decidere, determina prima bene l'argomento. Poi, seduto, nella pace della preghiera, con occhio limpido verso il fine che è amare Dio sopra ogni cosa, vedi ciò che più giova.
Confrontati con i fratelli, senza volere che prevalga la semplice ragione, che inevitabilmente confondi con la tua opinione. Valuta con libertà una cosa e il suo contrario, disposto a qualunque delle due Dio voglia da te. Decidi infine ciò che meglio aiuta al fine, e, prima di agire, aspetta che lui confermi la tua decisione, dandoti ripetutamente la sua consolazione.


CONCLUSIONE

Ti ho scritto queste cose non per erigermi a maestro. Unico è il Maestro tuo, mio e di tutti. Se ti ho detto di farti mio imitatore, è solo perché anch'io sono imitatore suo (1Cor 4,16; 11,1).

Quanto ti ho scritto è quanto ho appreso da lui, e quanto raccomando a me, per primo.

In conclusione, caro compagno nel servizio del Signore e dei fratelli, cerca nella tua unione con Gesù, nella preghiera e nella sua parola il senso della tua vita.

La contemplazione sia la molla della tua azione. Il tempo che vi perderai sarà tutto guadagnato per il tuo apostolato. Quello che vi sottrarrai, sarà tutto perso.

Non lasciare mai il Signore, neanche quando agisci per lui.

Ama e perdona i fratelli con cui vivi, e così vivrai ciò che dici.

Il dono che il Signore ti ha fatto è quello di annunciare il vangelo. Non ti ha fatto altri doni. Di questo, che è il più umile e il più fondamentale, sii fedele amministratore.

Con la tua preghiera e la tua parola stimola e nutri gli altri servizi necessari alla comunità, senza però farli tu.

Evangelizza in povertà e gratuità, come il Signore ha ordinato. Diversamente non testimonierai il Signore morto e risorto, che ci ha amato e ha dato se stesso per noi.

La povertà ti permetterà di adattarti ad ogni situazione, e di lievitarla con la potenza della croce di Cristo.

E vero che ognuno è quello che è. Ma è ancor più vero che ognuno è quello che diventa. Tutti, con la grazia di Dio, possiamo e dobbiamo cambiare.

Ciò che ti manca, chiedilo con fiducia a colui che può fare e donare più di quanto noi possiamo chiedere e pensare (Ef 3,20). Ma chiedilo senza dubitare, credendo di averlo già ottenuto, e ti sarà dato (Mc 11,23 s.).

Vivi con riconoscenza e responsabilità il dono che ti è stato fatto. Sforzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della Parola (2Tm 2,15).

E la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza (Fil 4,7) sia con te, e con tutti quelli che amano il Signore nostro Gesù Cristo con amore incorruttibile (Ef 6,24).

 
Atti capitolo 2 Stampa

Venegono, 27 e 28 ottobre 2007

Cammino LMC

 

Atti degli apostoli - capitolo 2

La Pentecoste e la prima comunità




Brani per la riflessione...




1

l primo brano è tratto da una riflessione di Tresina Caffi, missionaria saveriana in RD Congo.

A partire da Atti 2, 42, Teresina ragiona sulla prima comunità cristiana.


Il ritratto della comunità cristiana in Atti 2,42

At 2,42a: "Erano assidui nell'insegnamento degli apostoli..."

La Parola nella vita della Chiesa

C'è stato un lungo tempo in cui la parola di Dio era rimasta ai margini della vita del popolo cristiano. Si era giunti a temere di darla in mano ai credenti. Ma noi viviamo l'epoca fortunata del dopo Concilio.


L'ascolto della Parola nelle giovani chiese

Siamo dunque ora in un'epoca felice, in cui, se vogliamo, possiamo abbondantemente nutrirci alla parola di Dio. La chiesa parla di due mense, degne dello stesso rispetto: la Parola e l'Eucaristia. In missione ci capita di vedere con i nostri occhi con una evidenza particolare la forza della Parola. In Africa ad esempio, per molte comunità l'accesso ai sacramenti non è cosa frequentemente possibile. La Messa viene celebrata una volta ogni mese o più mesi o un anno. Questo vale anche per gli altri sacramenti ordinari della vita cristiana. C'è però un tesoro sempre possibile: la Parola di Dio.

In un mondo in cui un libro è una rarità, in cui non trovi un foglio di carta in giro, dove i quaderni scritti vengono riutilizzati per mettervi le noccioline al mercato, in cui nessun alunno normale ha dei libri, e neppure l'insegnante: tutto si trasmette di quaderno in quaderno... in questo mondo avaro di libri, uno però è ambito, desiderato, posseduto da un certo numero di cristiani, in particolare da chi ha una funzione nella comunità: la Bibbia.

Così, la sera, ultimati i lavori dei campi, preso il cibo del giorno, prima che il sole tramonti, seduto appoggiato alla parete esterna della sua abitazione, il catechista o semplicemente il credente apre la sua Bibbia e legge.

Leggere la Parola di Dio è uno degli stimoli che spinge tanti a seguire, anche adulti, dei corsi di alfabetizzazione. Quando una mamma riesce a leggere, quando può leggere un brano di fronte alla comunità, è presa da un grande senso di gioia e di fierezza.

Ci si dirà: ma che cosa capiscono? E se capissero sbagliato? Già sant'Agostino, nel IV secolo dopo Cristo diceva che chi legge con amore non può far errori troppo grossi nell'interpretazione. Noi constatiamo che davvero lo Spirito Santo dà a ciascuno, con la fede e il battesimo, la capacità di leggere la Scrittura comprendendola.

La lettura della Parola si fa in particolare in comunità. E' attorno alla Parola che si radunano i cristiani di un villaggio. Sotto un albero, quando o finché non c'è a disposizione un ambiente capace di ospitarla, ogni settimana, la piccola comunità, formata al massimo da 50 famiglie (non tutte frequentano) si riunisce. In essa sono definiti i vari ruoli: responsabile, vice, segretario, cassieri... uomini o donne.

L'incontro si apre con la preghiera e lo scambio fraterno di notizie. Poi si ascolta un brano della parola di Dio. Il responsabile o il catechista può introdurla o commentarla brevemente. Poi chi desidera esprime come la Parola l'ha toccato. Quando partecipiamo a questi incontri di comunità, restando anche noi tra i partecipanti, ascoltiamo commenti profondi che ci fanno intuire che Dio si rivela ai piccoli e che ogni uomo è capace di ascolto fruttuoso della Parola.

Dopo il commento, si esprimono delle preghiere e si raccolgono contributi per le necessità della comunità. Si relaziona circa gli impegni assunti la settimana precedente: si si sono realizzati, come stanno le persone malate o sole che si sono andate a trovare. Se sono nati dei bambini, se ne dà notizia e il gruppo delle mamme dice se ha aiutato la puerpera nei lavori, ad esempio attingendole l'acqua. Si passa poi a distribuire i compiti futuri: connessi con la parola direttamente o indirettamente, perché ogni Parola veramente accolta è luce e forza per l'azione. Qualcuno s'impegna ad andare a trovare un malato, a casa o all'ospedale, altri a prestare aiuto a mamme che hanno appena partorito o ad anziani o altre persone in difficoltà. L'attenzione va anche a quei credenti che si sono allontanati dalla vita della comunità. Chi andrà a ricontattarli?

Un canto conclude l'incontro. In queste comunità, riunite attorno alla Parola di Dio c'è gioia, fraternità. Davvero, anche in contesti poveri, nessuno più è nella miseria, perché è soccorso dalla solidarietà della comunità.

I non cristiani si stupiscono della gioia di queste persone, del loro amore fraterno e dell'aiuto verso chi nel bisogno, senza guardare la sua appartenenza etnica o religiosa. Così, spesso nuove persone si presentano alla riunione della comunità e da simpatizzanti diventano poi catecumeni e quindi vengono accolti pienamente nella chiesa.

Un quadro ideale come quello di Luca? Certo, come anche Luca fa intravedere nel racconto degli Atti (vedi l'episodio di Anania e Saffira), così in queste giovani chiese non mancano le difficoltà, le incoerenze. Ci possono essere tanti errori nella vita delle comunità: un responsabile troppo protagonista o quasi dittatore, del denaro raccolto e non utilizzato al suo fine, inadempienze negli impegni assunti, preferenze nell'aiutare, mancanza di profondità spirituale... Tutto può accadere. Può anche succedere che, inorgoglito della Parola ascoltata uno presuma di averne la chiave di lettura e se ne vada, col libro sottobraccio a fondare una nuova chiesa, magari anche in vista di introiti economici. Tutto può succedere nella micro-chiesa come nella macro.

Però, queste comunità fondate sulla Parola hanno resistito anche durante la guerra. Quando la gente fuggiva in foresta, tra le poche cose, portava la Bibbia e quel piccolo gruppo di gente mancante di tutto si riuniva e continuava a leggere la Parola e a pregare nell'estrema precarietà della loro situazione.


At 2,42b: Assidui nell'unione fraterna

Comunità casa e scuola di comunione

Scrivono i Vescovi italiani nel documento per il decennio 2001-2010 "Comunicare il vangelo in un mondo che cambia":

"Raggiunti dall'amore di Dio "mentre noi eravamo ancora peccatori" (Rm 5,8) siamo condotti ad aprirci alla solidarietà con tutti gli uomini, al desiderio di condividere con loro l'amore misericordioso di Gesù che ci fa vivere. La Chiesa è totalmente orientata alla comunione. Essa è e dev'essere sempre, come ricorda Giovanni Paolo II, "casa e scuola di comunione" (NMI 43).


Vita di comunione in Africa Centrale

Una ricca tradizione

Per gli Africani, tutte le molteplici creature sono percorse da un'unica forza vitale che Dio ha dato agli animali, ai vegetali, ai minerali, agli uomini, attraverso la quale essi sono. Ma questa forza ha per vocazione di crescere. L'uomo occupa un posto centrale, perché è capace di rafforzare la sua forza, di realizzarsi come persona, essendo sempre più libero all'interno di una comunità solidale. Tutti gli altri esistenti non sono che degli strumenti al servizio di questo scopo. Infatti il rafforzamento dell'uomo, centro dell'universo visibile, conduce, necessariamente, al rafforzamento dell'insieme della rete, al rafforzamento di Dio, che è la pienezza dell'ESSERE.

La solidarietà familiare, la famiglia allargata, patriarcale, alla maniera biblica - scrive Jean-Marie Abanda Ndengue - è una concezione tipica dell'Africa nera: "Noi vi scopriamo il senso degli altri, un altruismo forse fondato sul legame di sangue, ma che uccide l'egoismo naturale; grazie a quest'apertura verso gli altri, ci si sente sostenuti nella tribolazione e lungo tutta la vita.

La solidarietà africana stupisce gli europei che incontrano questi popoli. Nel villaggio tradizionale non esiste un povero che manchi di cibo, perché all'ora dei pasti potrà sempre avvicinarsi ad una famiglia che sta mangiando e prendere parte al pasto. Non si deve infatti mangiare chiusi in casa, ma all'aperto. È normale prestarsi le cose fra vicini. In tempi normali, non esiste il bisogno di orfanotrofi: se i genitori non ci sono più, interviene la famiglia allargata a prendersi cura dei bambini. La festa di una famiglia è la festa del villaggio e così pure il lutto. Il parente che ha una buona posizione sociale aiuta economicamente il resto della parentela, per esempio ospitando per anni dei figli di parenti e facendoli studiare.

La comunità cristiana e i suoi testimoni

La comunità cristiana va oltre la tribù, riunisce persone di ogni tribù e allarga la solidarietà a chiunque è nel bisogno, al di là di ogni distinzione di etnia o di religione. Questa è una testimonianza forte, che attira nelle comunità cristiane d'Africa sempre nuovi aderenti.

L'Africa centrale sta vivendo da quasi sette anni una guerra durissima, in cui popoli ed etnie si sono scontrati, spinti da interessi di poteri economici spesso estranei all'Africa. Un dramma che ha messo in questione la stessa evangelizzazione: come abbiamo evangelizzato? Il Vangelo resta la speranza più profonda dell'Africa in guerra. Senza la capacità di perdonare che viene da Cristo, non sarà possibile ristabilire la comunione. In mezzo a tante violenze, ci sono esempi splendidi di testimonianza cristiana. Ecco alcune testimonianze.

"In Burundi dal 1993 hutu e tutsi si combattono senza sapere perché, forse eccitati da politici che vogliono aggrapparsi al potere o che lo vogliono raggiungere. Vittime sono sempre donne e bambini innocenti, che non saranno mai, in ogni caso, associati a questo potere né a questi beni materiali. Dobbiamo tuttavia riconoscere che alcune persone sono rimaste degne di loro stesse ed hanno conservato interamente la loro umanità; hanno rifiutato, al rischio della loro vita e spesso anche sacrificandola, di cadere in questi orrori.

La signora Elisabeth Barakamfitiye, di una sessantina d'anni, di etnia tutsi, un giorno del 1995, a Bujumbura, passando davanti al mercato, vide dei militari estremisti tutsi si stavano accanendo su un'anziana donna , pugnalandola da ogni parte, perché era hutu. I passanti , le auto che passavano lasciavano correre, indifferenti. Elisabeth s'è gettata con tutto il suo corpo su questa signora, che stavano assassinando sotto i suoi occhi. Ella poté così evitare il peggio, ma fu a sua volta colpita e, anche per la sua salute fragile, rimase paralizzata per tutta la sua vita. (Deo Ngendahayo)

Médiatrice è una donna ruandese, tutsi, il cui marito è hutu. Abitavano in Ruanda ed erano benestanti. Fuggiti in Zaire, hanno dovuto adattarsi a vivere al campo profughi, in una tenda. I fratelli di lei hanno posti di prestigio nell'attuale governo e le scrissero: "Vieni, lascia quel marito, ti ucciderà! Qui starai bene, i tuoi figli potranno studiare". La signora venne da me a leggermi la lettera piangendo: "Quando mi sono sposata, la mia famiglia era d'accordo sul nostro matrimonio. Ora che ci sono difficoltà, mi chiedono di lasciare mio marito. Ma io non posso, gli ho promesso fedeltà nella buona e nella cattiva sorte. Nella tenda dove viviamo, piove, abbiamo fame, ma io non posso lasciarlo. L'ho scelto per sempre". Ed è rimasta." (Enathe Marekabiri).


At 2,42c: Erano assidui... nella frazione del pane

E don Tonino Bello scriveva:

"Ricordate Oscar Romero? Un attimo prima che venisse ammazzato disse: qui, in questo calice, c'è del vino che attende di diventare sangue. E si abbatté su di lui una scarica di mitragliatrice. Roger Garaudy diceva ai cristiani: Cristo è nel pane. Però ricordate che i discepoli lo riconobbero allo spezzare del pane. Se non c'è frantumazione del nostro pane, della nostra ricchezza, del nostro tempo, difficilmente i discepoli lo riconoscono. (...). Il frutto dell'eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni... Le nostre eucaristie dovrebbero essere delle esplosioni che ci scaraventano lontano e, invece, il Signore dopo cinque minuti ci rivede ancora lì dinanzi all'altare. (...) Un solo corpo, un solo Spirito. Ma quanto costa ciò! Il nostro impegno sacerdotale, cristiano, non può non essere che crocifisso. (...) Chi si comunica dovrebbe farsi commensale di ogni uomo. (...).

L'eucarestia rimane... una sorta di sacramento incompiuto. Rimane incompiuto quando manca la sequela eucaristica. E che cosa significa, fratelli miei, sequela eucaristica? (...) Vivere l'eucarestia è lasciarsi andare, lasciarsi afferrare dall'onda di Gesù Cristo. Lasciarsi andare senza i tuoi tracciati, senza i tuoi programmi, gli itinerari che ti sei schematizzato tu. Io vorrei esortarvi, cari fratelli, a un modo di vivere più abbandonato, più libero. Sentitevi uomini liberi, uomini che non sono lì incastrati nel sistema. (...) L'eucarestia è uno scandalo da vivere fino in fondo (...).

Occorre aver coscienza che noi siamo corpo di Cristo crocifisso alla storia. Coscienza di non possedere la Verità, quanto di essere posseduti dalla Verità. È la Verità che ci afferra, è Cristo che ci afferra. Mentre noi molte volte siamo coloro che esprimono questa superbia dottorale, superbia docente. Avere la coscienza che noi siamo corpo di Cristo crocifiggente. La comunità eucaristica, come Gesù, deve essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo. Noi tra le opere di misericordia corporale abbiamo sempre insegnato che bisogna consolare gli afflitti, ma non abbiamo mai invertito l'espressione dicendo che bisogna affliggere i consolati. Tu devi essere una spina nel fianco della gente che vive nelle beatitudini delle sue sicurezze (...).

Occorre avere la coscienza che noi siamo il corpo festivo di Gesù Cristo. E non solo il suo corpo feriale, crocifisso e crocifiggente. Perché celebrare con autenticità i giorni festivi significa salvare i giorni feriali. Come si dovrebbe scatenare il senso della festa, specialmente la domenica! (...).

Gesù Cristo è il nuovo Adamo. Il primo ha frantumato l'umanità col peccato. Il secondo l'ha ricostruita nell'unità. (...) Ebbene, noi credenti dobbiamo collocarci sulla stessa linea di riconduzione dell'unità iniziata da Cristo. E' questo il servizio fondamentale che ci viene richiesto. Di qui deve scatenarsi il nostro impegno contro tutto ciò che favorisce la disgregazione: l'egoismo, l'accaparramento dei beni che esclude tanta gente dal banchetto della vita, la violenza, l'uso della forza, il ricorso alle armi, il crescente sviluppo dell'apparato bellico, la progressiva militarizzazione del territorio, il commercio clandestino e palese delle armi cui si legano i fenomeni della droga e della mafia..

Ecco: sono queste le linee sui cui dobbiamo esprimere le nostre solidarietà "lunghe" col mondo, anche quando il mondo ci contrasta. Gli altri gesti quotidiani, quelli cioè che come volontari o come obiettori esprimete per assicurare ai diseredati un po' di minestra, o un abito per coprirsi, o un letto per dormire, costituiscono quelle solidarietà "corte" che pure dobbiamo mettere in atto se vogliamo che il Signore un giorno ci riconosca come suoi amici."


Eucaristia e Missione

Tre messe nel Congo ex-Zaire. Erano a messa i cristiani di Kasika, il 23 agosto 1998, quando arrivò il drappello con l'ordine di ammazzare la gente. Il prete fece appena a tempo a far fuggire alcuni della porta dietro l'altare. Gli altri, insieme a lui, ad un seminarista, a tre suore, furono uccisi insieme a centinaia di persone del villaggio e dei villaggi circostanti. Il sangue di Cristo consacrato si unì ad una quantità immensa di sangue versato. Un'eucaristia terribile. I sopravvissuti fuggirono in foresta.

Era quasi la Pasqua di quest'anno, a Bukavu. Avevo vissuto una mattinata di ritiro con un gruppo di suore congolesi, a cui la guerra aveva portato via nell'anno precedente nove consorelle, uccise per voluto stare con la gente, fino a condividerne il martirio. A tavola si aggiunse a noi un giovane prete congolese, che le suore conoscevano. Gli fecero posto davanti a me e così sentii la sua storia. Veniva dalla foresta, dove la gente si era rifugiata, lasciando il villaggio ove aveva sede la Parrocchia. Vivevano di stenti, sempre temendo di essere attaccati o dai militari dell'esercito di occupazione o dai gruppi di resistenza che spesso a loro volta angariavano la popolazione, per spillarne l'ultima gallina, l'ultimo soldo. Solo di tanto in tanto la gente arrischiava una scappata al campo per prendervi un po' di cibo. Con la gente erano, appunto, i loro preti. Dalla gente protetti, dalla gente cercati per continuare ad aggrapparsi alla sola certezza rimasta: un Dio nei cieli che vede, sa e darà un giorno riposta. Benché nel rischio, i cristiani avevano ricostituito in foresta le comunità ecclesiali di base, che si riunivano talvolta nella "cappella" di fortuna apprestata, talaltra, in caso di maggior pericolo, in piccoli gruppi nelle casette che la gente si era costruita. Con alcuni giorni di cammino a piedi, superati in strada vari pericoli, il giovane prete era arrivato a Bukavu e diceva: "Vengo a cercare il vino per la messa, le ostie le abbiamo ancora".

La sera della vigilia di Pasqua nella città la gente si affrettava ad entrare in chiesa, per trovare posto: la messa sarebbe cominciata di lì a poco. C'era un'aria di festa smorzata come in un matrimonio celebrato da una famiglia in lutto. La festa povera di chi non può permettersi il vestito nuovo, la festa dignitosa di chi tiene duro nella prova ed è lì, sopravvissuto per mille solidarietà ricevute ed offerte. Bisogna contemplarla, la dignità del povero con la sua camicia mille volte lavata. Non c'è paragone con l'ostentazione del ricco. Nella messa, molti giovani ed adulti ricevettero il battesimo, dopo quattro anni di preparazione. La corale cantò, da sola e con l'assemblea, tantissimi canti. Si danzò la certezza di realtà che la guerra non può distruggere, la speranza di un mondo di pace. Mi chiesi se il danzare in chiesa nel dramma della guerra avesse un senso. Quelle mamme, uscendo, si sarebbero ritrovate con la difficoltà di nutrire la famiglia, con il pericolo. Capii che danzare, in quell'ora non era fuga: era un'isola di libertà che il Signore offriva loro nella sua casa, un tempo per riprendere fiato, per tornare ad ascoltare, parole indistruttibili, mentre tutto frana, parole vere, mentre la menzogna e la violenza sembrano trionfare; un tempo per rinfrancare la speranza, per darsi coraggio stringendosi la mano. Anche al vicino che ti capita e che appartiene al popolo che ti sta muovendo guerra. C'è un mistero che accade, nella messa.

Che continua fuori. In miracoli come la moltiplicazione dei pani. Una città affamata accoglie migliaia di sfollati e non ce n'è uno all'aperto, tutti hanno trovato ospitalità. In una città allo stremo le comunità cristiane sanno ancora organizzarsi per portare a turno il cibo agli ammalati all'ospedale (l'ospedale non dà loro da mangiare). In una città che sopravvive a fatica c'è ancora chi presta soldi ad un altro che non ha racimolato nulla durante il giorno, sapendo che non gli verranno ridate. O chi mentre la sera scende e una madre è desolata perché senza cibo per i suoi, sa vedere e tendere una tazza di fagioli da cuocere. È l'Eucaristia che continua.

Loro celebrano guardando a Cristo. Sentono così vicina la sua storia alla loro. Questo popolo, questi popoli che subiscono tutte le guerre, che pagano le spese di tutte le cosiddette liberazioni, che sono obbligati a danzare per tutti i dittatori, che sono fatti tacere non appena osano parlare, questi popoli portano oggi il peccato del mondo. Celebrano il mistero di Cristo, ma anche il loro mistero. Celebrare, per noi, è schierarci con Cristo e con tutti coloro che oggi sono schiacciati. Celebrare è imparare ad amare d'un solo amore Cristo e le sue membra sofferenti oggi.


At 2,42d: "Erano assidui ... nelle preghiere"

La quarta caratteristica della comunità cristiana descritta da Luca è il fatto che "erano assidui... alle preghiere".

Quale preghiera? L'esperienza dell'Africa

Da anni in Africa (e non solo) prosperano le sette più diverse, spesso sostenute dalle loro "Chiese madri", impiantate negli U.S.A.. La preghiera è un aspetto da esse sottolineato, sia di lode che di supplica. I loro adepti passano ore e giornate in canti rumorosi, accompagnati da tamburi. Si esalta Gesù unico Salvatore, che risolve ogni problema, guarisce ogni male. I responsabili promettono ai loro aderenti la guarigione grazie alla preghiera, la pace del cuore, la fine del malocchio, la soluzione ai loro problemi di povertà, di disoccupazione, ecc. Talora proibiscono ai loro membri di ricorrere a medicine, a iniezioni e alla trasfusione di sangue, insegnando che la preghiera da sola porta la guarigione. Le veglie di preghiera si moltiplicano ad un ritmo inquietante: vi prendono parte per delle intere giornate delle persone disoccupate e nell'insicurezza alimentare.

Ma esiste un'altra preghiera, quella cristiana. I cristiani della Repubblica Democratica del Congo pregano. Proprio perché hanno così poche sicurezze, sono costantemente coscienti di essere sostenuti dalla provvidenza di Dio. Quando a una mamma affaticata sotto il peso della sua gerla o in un lungo viaggio a piedi, offri un passaggio in macchina, ella esclama: "Il Signore c'è!". Come pure per ogni evento positivo che la solleva in un problema: una medicina, una visita inattesa, ecc.

Una preghiera particolarmente affezionata è rivolta a Maria, che sentono vicina: mamma come loro, regina di tutte le mamme. Non c'è cristiano/a, si può dire, che non abbia il rosario, spesso al collo. Maria è per essi segno della maternità di Dio.

Quando si sentono in casa, umiliate - è più spesso il caso delle donne - dal consorte che tradisce, picchia, ignora i suoi doveri verso la famiglia; quando a livello sociale si sentono oppressi da una guerra senza fine, donne e uomini pregano, personalmente e comunitariamente. Sentono, come lo straniero, l'orfano e la vedova dell'Antico Testamento, che Dio è il loro avvocato, è Colui che sa, Colui cui spetta l'ultima parola. Mentre i grandi, in hotel di lusso, discutono di pace - loro che fanno la guerra -, il popolo cristiano sa che la sua vita è nelle mani di Dio. La stessa morte è accolta con semplicità e realismo, con la certezza che si è nelle mani del Padre, si va nella sua casa.

Una preghiera che torna frequente sulle labbra della gente oppressa è la seguente: "Signore, fino a quando?". Con alcuni di loro abbiamo ricercato nei Salmi quante volte appare questa domanda, nata probabilmente da analoga sofferenza di fronte a situazioni angosciose che non sembrano mai finire.



2

Il secondo brano è di Enrico Galavotti, un laico milanese laureato in filosofia e teologia. Il brano analizza il capitolo 2 rispetto ai messaggi di Paolo e Pietro nel nuovo testamento.


Atti 2

La pentecoste è una descrizione simbolica di un fatto reale: la decisione che ad un certo punto presero gli apostoli o comunque la primitiva comunità cristiana di continuare il messaggio di Gesù in forme e modi non originari.

Nel racconto appare evidente che la storica decisione venne presa dall'intero collegio apostolico, benché i 28 capitoli degli Atti parlino delle vicende di pochissimi apostoli e soprattutto di quelle che un discepolo diretto del Cristo non fu mai stato: Paolo di Tarso.

Che la decisione la si voglia qui far apparire come presa unanimemente dal consiglio è testimoniato simbolicamente dal fatto che le "lingue di fuoco" scendono contemporaneamente sui Dodici, determinando conseguenze analoghe (glossolalia). Quanto però fosse davvero "unanime" è difficile dirlo (il vangelo di Giovanni parla p.es. di un Tommaso scettico). In ogni caso il cosiddetto "primato di Pietro", sostenuto dalla chiesa romana, non trova qui alcun riscontro. Pietro anzi dovette rinunciare categoricamente a diventare capo degli apostoli il giorno stesso in cui si rese conto che il messaggio originario di Cristo non poteva essere continuato, ovvero che poteva esserlo in altre forme e modi solo sulla base di una decisione collegiale.

Anche in Atti 9, 32s la coppia Pietro-Giovanni presto si divide e della predicazione di Giovanni non si sa più nulla. Si ha come l'impressione che Pietro abbia usurpato quello che doveva essere, secondo il lascito testamentario del Cristo in croce (Gv 19,25), il diritto di successione di Giovanni alla guida del movimento nazareno: cosa che l'autore degli Atti ha del tutto trascurato, facendo in modo di mascherare il più possibile tale usurpazione (su cui però Giovanni torna nella chiusa del suo vangelo (21,18s.).

La pentecoste insomma è l'espressione di un tradimento ben orchestrato: gli apostoli trasformano l'esperienza messianica del Cristo, politica per definizione, in un'esperienza mistica o spiritualistica, in virtù della quale la liberazione d'Israele dai romani diventa niente di più che una semplice redenzione personale dal peccato d'aver ucciso o d'aver lasciato uccidere il messia.

Conseguenza di ciò è che gli apostoli (qui per bocca di Pietro) iniziano a predicare l'uguaglianza universalistica non degli oppressi ma di tutti gli uomini (inizialmente di tutti i giudei): è il cosmopolitismo cristiano, qui preannunciato da Pietro, ma che in realtà verrà messo in atto da Paolo, a testimonianza che anche questo racconto, come quello del capitolo precedente, di storico ha ben poco.

In effetti, se anche volessimo dare per scontato che Pietro abbia pronunciato tale discorso nei termini riportati da Luca, è da escludere che il cosmopolitismo riguardasse anche il mondo pagano: questa infatti sarà un'acquisizione del paolinismo, che il petrinismo si troverà ad accettare obtorto collo. In quel momento significava semplicemente l'uguaglianza di tutti "i giudei osservanti di ogni nazione"(v. 5).

Il revisionismo c'era, ma non in maniera così plateale come avverrà in Paolo. Lo scopo del discorso di Pietro era quello di trasformare l'esigenza di una liberazione politica della nazione d'Israele dal dominio romano nell'esigenza di affermare un'uguaglianza etico-morale di tutti i giudei sparsi nell'impero romano, resasi necessaria anche a motivo del fatto che tra gli ebrei della diaspora e i giudei della madrepatria (e l'episodio di Stefano lo dimostrerà) non correva buon sangue. I capi giudei, in particolare, venivano accusati da un lato di essere ideologicamente troppo chiusi e rivolti al passato e politicamente di assumere atteggiamenti troppo acquiescenti nei confronti dei romani.

Pietro però ribalta i termini della questione: se i giudei della madrepatria si pentono d'aver ucciso il Cristo e se tutti i giudei accettano l'idea della resurrezione, si possono impostare su basi nuove i rapporti tra Giudea e Diaspora, cioè si può allargare il raggio d'azione del messianismo di Gesù, rivestito, beninteso, di un involucro idealistico.

Il discorso di Pietro, a ben guardare, è tutto volto a giustificare il tradimento degli apostoli, di cui lui fu l'artefice principale. Egli si rende conto che i tempi permangono drammatici (parla di "ultimi giorni", v. 17), ma ne conclude (pensando anche di dare una spiegazione al mistero della tomba vuota) che agli uomini non resta che attendere "il giorno del Signore"(v. 20), cioè il ritorno sulla terra del Salvatore.

Pietro mostra in due modi d'essere convinto del ritorno glorioso e imminente del Cristo redivivo: dicendo che è stato ucciso "secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio"(v. 23) e dicendo che è "risorto" perché "non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere"(v. 24). Quanto egli fosse personalmente convinto di queste cose è difficile dirlo. Pietro sicuramente avvertiva forte l'esigenza politica di tenere unito il movimento nazareno, e se in quel momento l'unico modo per dimostrarlo era quello di raccontare cose del tutto fantasiose, che con l'esigenza di una politica rivoluzionaria c'entravano ben poco, ciò non deve stupirci, poiché qui si ha a che fare con una popolazione tradizionalmente molto religiosa, oltre che politicamente agguerrita.

Semmai è il fine ultimo del suo discorso che deve lasciarci perplessi. Egli infatti, ritenendo la morte del messia come necessaria alla manifestazione gloriosa del suo imminente ritorno (la parusia), finiva con l'interpretare la tomba vuota come un invito alla rassegnazione e alla passività politica.

Sarà proprio da questa falsa interpretazione della scomparsa del Cristo che nascerà l'esigenza di riallacciare i rapporti con le autorità giudaiche costituite, offrendo a queste la possibilità di credere nella messianicità del Cristo risorto (v. 36), in cambio della rinuncia cristiana a lottare politicamente per l'abbattimento del compromesso tra potere giudaico e potere romano, in forza del quale il Cristo fu giustiziato.

Le autorità ovviamente avrebbero dovuto accettare la decisiva differenza tra Davide e Cristo (vv. 29 ss). Il Cristo è più grande di Davide esclusivamente perché è "risorto" e la resurrezione ha valore in quanto rende inutile la lotta politica. In questo senso però ci si può chiedere se l'esigenza di diffondere il concetto di uguaglianza universalistica di tutti gli ebrei "sparsi nel mondo" (e in seguito di tutti gli uomini), sia contestuale o posteriore all'idea che la cosiddetta "resurrezione" di Cristo avrebbe dovuto ricostituire, eo ipso, il regno davidico.

La rinuncia all'impegno politico rivoluzionario è ben attestata anche dal fatto che Pietro, in maniera regressiva, ripropone il battesimo di Giovanni "riveduto e corretto", cioè amministrato "nel nome di Gesù Cristo" per ricevere "il dono dello Spirito Santo" (v. 38). Pietro chiama alla penitenza per la morte del messia tutti coloro che non fecero niente per salvarlo dall'esecuzione capitale, ma anche coloro che ne avrebbero voluto attendere il ritorno senza far nulla per meritarselo.

E' singolare tuttavia il fatto che mentre per il Battista il battesimo doveva servire unicamente come occasione simbolica per predisporsi moralmente alla venuta di un regno di liberazione dai romani, per l'apostolo Pietro lo stesso battesimo serve per rinunciare all'idea di dover lottare politicamente per ottenere questo stesso regno. Pietro recupera il valore di una cosa che il Cristo aveva già superato.

Si può quindi sostenere, in sintesi, che mentre col concetto di "resurrezione" si predicava il ritorno imminente del Cristo glorioso, per la restaurazione del regno davidico, col concetto di "ascensione" si posticipa questo ritorno a un futuro imprecisato, e col concetto di "pentecoste" si afferma che il suo ritorno si realizza subito in maniera mistica, attraverso lo Spirito Santo che effonde le sue virtù morali sui battezzati.

* * *

In questo capitolo vi è anche la descrizione delle caratteristiche fondamentali della primitiva comunità cristiana: 1. insegnamento apostolico, 2. fratellanza e condivisione materiale dei beni posseduti, 3. non più attività politica ma simbolica o religiosa: eucarestia e preghiere (v. 42). Il che produce "senso del timore" e culto degli apostoli (v. 43).

La comunità materiale era elementare ma efficace, almeno nei limiti che la costituivano: "chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno"(v. 45). Da sottolineare che in Luca l'assenza di proprietà privata, ovvero la gestione collettiva dei beni appare come condizione irrinunciabile della stessa comunione spirituale. Gli aspetti sono inscindibili: lo si comprende laddove egli parla di "unione fraterna" e di "comunione", senza specificare alcunché.

Quando nella chiesa cristiana avranno fatto il loro ingresso i ceti medi e medio-alti della società, il realismo e la concretezza della comunità primitiva cominceranno ad essere progressivamente trascurati (l'episodio di Anania e Saffira può essere letto come il tentativo di arginare un fenomeno del genere). A partire da quel momento la prassi comunionale non terrà più conto degli aspetti materiali dell'esistenza, ma si limiterà a sviluppare tutta una teologia moralistica del dovere per i ricchi e della pazienza per i poveri, che ancora oggi permane inalterata negli ambienti ecclesiastici di potere. Per i bisogni straordinari ci si appellerà alle diverse offerte ed elemosine, più o meno volontarie (vedi l'uso delle decine, delle collette ecc.).

La comunione materiale resta primitiva soprattutto perché non prevede la collettivizzazione dei principali mezzi produttivi (la terra, gli strumenti del lavoro...), né la socializzazione del lavoro e della vita commerciale e artigianale. Al massimo si prevede la fondazione di casse comuni per l'affronto di bisogni particolari di piccola e media entità.

La comunità poteva reggersi in piedi solo se gli aderenti già lavoravano in proprio o presso terzi, o comunque se la maggioranza disponeva di un minimo di capitali. È da escludere quindi che al suo interno fossero presenti vasti strati del proletariato nullatenente (schiavi, coloni, contadini liberi fortemente indebitati...).

Una distribuzione democratica del denaro ("secondo il bisogno"), in assenza di socializzazione dei mezzi produttivi, altro non poteva significare che elargizione temporanea e limitata di una determinata quota dei fondi a disposizione. A questa comunità mancava completamente un progetto rivoluzionario sulla società: essa era soltanto un mezzo per difendersi dagli eccessi della società schiavistica e dagli abusi finanziari dello Stato romano. Parte del proletariato (la plebe) vi poteva accedere, ma senza sperare, di regola, in una vera emancipazione sociale né quindi in un vero protagonismo politico. E' vero che qui ancora non siamo in presenza dello sfruttamento del "contadino cristiano" da parte dell'"imprenditore cristiano", ma il passo sarà breve.

Di sicuro una comunità del genere, che peraltro continuava a "frequentare il tempio" di Gerusalemme, pur facendo le agàpi o le eucarestie nelle case private (v. 46), non costituiva una minaccia per l'ordine pubblico. Essa "godeva le simpatie di tutto il popolo"(v. 47) e i romani non ebbero motivo di pensare che al suo interno si proseguiva il messaggio rivoluzionario del movimento nazareno.



3

Il terzo ed ultimo brano riporta il discorso tenuto da papa Wojtyla nel 1989. Giovanni Paolo II sottolinea il legame tra l'attività missionaria e la missionarietà alla quale siamo tutti chiamati; legame perlatro ben presente nell'enciclica Ad Gentes.

Giovanni Paolo II - Udienza generale 20 settembre 1989

1. Nel decreto conciliare Ad Gentes, sull'attività missionaria della Chiesa, troviamo ben collegati l'evento della Pentecoste e l'avvio della Chiesa nella storia: "Fu nel giorno della Pentecoste che esso (lo Spirito Santo) si effuse sui discepoli... Fu dalla Pentecoste... che cominciarono gli «atti degli Apostoli»" (Ad Gentes, 4). Se dunque, fin dal momento della sua nascita, uscendo nel mondo il giorno di Pentecoste, la Chiesa si è manifestata come "missionaria", ciò è avvenuto per opera dello Spirito Santo. E possiamo subito aggiungere che la Chiesa rimane sempre tale: essa permane "in stato di missione" (in statu missionis). La "missionarietà" appartiene alla sua stessa essenza, è una proprietà costitutiva della Chiesa di Cristo, perché lo Spirito Santo l'ha fatta "missionaria" fin dal momento della sua nascita.

2. L'analisi del testo degli Atti degli Apostoli, che narra il fatto della Pentecoste (At 2, 1-13), ci permette di cogliere la verità di questa asserzione conciliare, appartenente al comune patrimonio della Chiesa.

Sappiamo che gli apostoli e gli altri discepoli riuniti con Maria nel Cenacolo, udito "un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo...", videro scendere su di sé delle "lingue come di fuoco" (cf. At 2, 2-3). Nella tradizione ebraica il fuoco era segno di una speciale manifestazione di Dio che parlava per l'istruzione, la guida e la salvezza del suo popolo. La memoria della esperienza meravigliosa del Sinai era viva nell'anima di Israele e lo disponeva a capire il significato delle nuove comunicazioni contenute sotto quel simbolismo, come ci risulta anche dal talmud di Gerusalemme (cf. Hag 2,77 b, 32; cf. etiam il "Midrash Rabbah" 5, 9 cum Es 4, 27). La stessa tradizione ebraica aveva preparato gli apostoli a comprendere che le "lingue" significavano la missione di annunzio, di testimonianza, di predicazione, della quale Gesù stesso li aveva incaricati, mentre il "fuoco" era in rapporto non solo con la legge di Dio, che Gesù aveva confermato e completato, ma anzi con lui stesso, con la sua persona e la sua vita, con la sua morte e la sua Risurrezione, giacché egli era la nuova torah da proporre nel mondo. E sotto l'azione dello Spirito Santo, le "lingue di fuoco" divennero parola sulle labbra degli apostoli: "Furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi" (At 2, 4).

3. Già nella storia dell'antico testamento si erano avute manifestazioni analoghe, nelle quali veniva dato lo spirito del Signore in ordine ad un parlare profetico (cf. Mi 3, 8; Is 61, 1; Zc 7, 12; Ne 9, 30). Isaia aveva anzi veduto un serafino che gli si avvicinava tenendo in mano "un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare", e con esso gli toccava le labbra per mondarlo da ogni iniquità, prima che il Signore gli affidasse la missione di parlare al suo popolo (cf. Is 6, 6-9 ss.). Gli apostoli conoscevano questo simbolismo tradizionale ed erano perciò capaci di afferrare il senso di ciò che avveniva in loro in quella Pentecoste, come attesta Pietro nel suo primo discorso, collegando il dono delle lingue alla profezia di Gioele circa la futura effusione dello Spirito divino, che doveva abilitare i discepoli a profetare (At 2, 17 ss; cf. Gl 3, 1-5).

4. Con la "lingua di fuoco" (At 2, 3), ciascun apostolo ricevette il dono multiforme dello Spirito, come i servi della parabola evangelica avevano tutti ricevuto un certo numero di talenti da far fruttificare (cf. Mt 25, 14 ss.): e quella "lingua" era un segno della coscienza che gli apostoli avevano e tenevano viva circa l'impegno missionario a cui erano votati e chiamati. Infatti, non appena furono e si sentirono "pieni di Spirito Santo, cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi". Il loro potere veniva dallo Spirito, ed essi ne eseguivano la consegna sotto la spinta interiore impressa dall'Alto.

5. Ciò avvenne nel Cenacolo, ma ben presto l'annuncio missionario e la glossolalia o dono delle lingue oltrepassarono le pareti di quell'abitazione. Ed ecco verificarsi un duplice fatto straordinario, descritto dagli Atti degli Apostoli. Prima di tutto, la glossolalia, che esprimeva parole appartenenti a una molteplicità di lingue e impiegate per cantare le lodi di Dio (cf. At 2, 11). La folla richiamata dal fragore e sbigottita per quel fatto, era composta, sì, di "Giudei osservanti" che si trovavano a Gerusalemme per la festa: ma essi appartenevano a "ogni nazione che è sotto il cielo" (At 2, 5) e parlavano le lingue dei popoli nei quali si erano integrati sotto l'aspetto civile e amministrativo, anche se etnicamente erano rimasti Giudei. Ora quella folla, radunata intorno agli apostoli, "rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?»" (At 2, 6-8). A questo punto Luca non esita a delineare una sorta di mappa del mondo mediterraneo da cui provenivano quei "Giudei osservanti", quasi per opporre quella ecumene dei convertiti a Cristo, alla Babele delle lingue e dei popoli descritta dalla Genesi (Gen 11, 1-9), senza omettere di nominare accanto agli altri, gli "stranieri di Roma": "Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia (Minore), della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi" (At 2, 9-11). A tutti costoro Luca, quasi rivivendo il fatto avvenuto nella prima Tradizione cristiana, mette in bocca le parole: "Li udiamo (gli apostoli, Galilei di origine) annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" (At 2, 11).

6. L'evento di quel giorno fu certamente misterioso, ma anche molto significativo. In esso possiamo scoprire un segno della universalità del cristianesimo e della "missionarietà" della Chiesa: l'agiografo ce la presenta, ben consapevole che il messaggio è destinato agli uomini di "ogni nazione" e che, inoltre, è lo Spirito Santo che interviene per far sì che ciascuno capisca almeno qualcosa nella propria lingua: "Li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa" (At 2, 8). Oggi parleremmo di un adattamento alle condizioni linguistiche e culturali di ciascuno. Si può quindi vedere in tutto ciò una prima forma di "inculturazione", avvenuta per opera dello Spirito Santo.

7. L'altro fatto straordinario è il coraggio con cui Pietro e gli altri undici si "levano in piedi" e prendono la parola per spiegare il significato messianico e pneumatologico di quanto sta avvenendo sotto gli occhi di quella folla sbigottita (At 2, 14 ss.). Ma su questo fatto ritorneremo a suo tempo. Qui è bene fare un'ultima riflessione sulla contrapposizione (una storia di analogia "ex contrariis") tra ciò che avviene nella Pentecoste e ciò che leggiamo nel libro della Genesi sul tema della torre di Babele (cf. Gen 11, 1-9). Là siamo testimoni della "dispersione" delle lingue, e perciò anche degli uomini che, parlando in diverse lingue, non riescono più a comprendersi. Nell'evento della Pentecoste, invece, sotto l'azione dello Spirito, che è Spirito di verità (cf. Gv 15, 26), la diversità delle lingue non impedisce più di intendere ciò che si proclama in nome e a lode di Dio. Si ha così un rapporto di unione inter-umana, che va oltre i confini delle lingue e delle culture, prodotta nel mondo dallo Spirito Santo.

8. È un primo adempimento delle parole rivolte da Cristo agli apostoli nel salire al Padre: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).

"Ed è ancora lo Spirito Santo - commenta il Concilio Vaticano II - che in tutti i tempi "dà l'unità intima e ministeriale della Chiesa, e la fornisce dei diversi doni gerarchici e carismatici" (Lumen Gentium, 4), vivificando - come loro anima - le istituzioni ecclesiastiche ed infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito per la propria missione, da cui era stato spinto Gesù stesso" (Ad Gentes, 4). Da Cristo, agli apostoli, alla Chiesa, al mondo intero: sotto l'azione dello Spirito Santo può e deve svolgersi il processo della unificazione universale nella verità e nell'amore.

 
Atti capitolo 1 Stampa

 

Affronteremo la lettura del testo su tre livelli.

  • Primo: cosa vuol dire il testo
  • Secondo: cosa vuol comunicare l'autore
  • Terzo: cosa vuol dire il testo a noi oggi.

L'autore è Luca, discepolo di Paolo, testimone di 2° generazione, medico.

Luca è l'unico evangelista a comporre un seguito del suo vangelo.

Luca fa un lavoro redazionale mettendo insieme testi già esistenti. Negli Atti viene presentato, nelle grandi linee e nei momenti essenziali, lo sviluppo, sotto l'azione dello Spirito Santo, della Chiesa istituita da Cristo. In concreto, l'arco di tempo considerato da Luca va dall'anno 30 al 63. Vi campeggiano le figure dei due principi degli apostoli Pietro e Paolo con una scelta di fatti che dànno un'idea sufficiente e fedele della corsa del vangelo nel mondo e dei fermenti della Chiesa primitiva. L'itinerario di quella corsa muove da Gerusalemme attraversa la Palestina, culla dei vangelo e dilaga nel mondo mediterraneo fino a Roma.

  • Primo periodo della Chiesa 1,1 - 2,47
  • Il vangelo predicato a Gerusalemme 3,1 - 7,60
  • Diffusione del vangelo a Samaria, Giaffa, Cesarea ed Antiochia 8,1 - 12,25
  • Viaggi missionari di Paolo 13,1 - 21,16
  • Arresto di Paolo e viaggio a Roma 21,17 - 28,31

Così si compie il mandato da Cristo ai suoi Apostoli (1, 8).

Racconto narrativo fusione di storia e fede. Una storia raccontata con gli occhi della fede.

Luca cerca sempre di sfumare i contrasti, nonostante nei primi anni di storia della chiesa siano subito sorte delle forti diatribe, quasi non ne troviamo traccia nel racconto degli atti.

A Luca sta a cuore dimostrare continuità tra antico e nuovo testamento.



CAPITOLO 1

 

L'ultima apparizione di Gesù è un pasto.

 

Per Luca è Apostolo colui che ha conosciuto Gesù sulla prima della sua ascensione al cielo, è il garante che il Gesù risorto è lo stesso Gesù storico

 

La comunità ha inizio quando Gesù sale in cielo, perché il suo fine è proprio quello di dare testimonianza a Gesù.

 

Gli Apostoli all'inizio avevano capito male, credevano che la fine del mondo fosse veramente vicina, alcuni perfino smettevano di lavorare.

Gesù li esorta: "Non state a chiedervi quando, preparatevi". «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità, ma riceverete una potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi e sarete miei testimoni e a Gerusalemme e in tutta la Giudea e Samaria e fino all'estremità della terra»". Il racconto che segue presenta di fatto la realizzazione di questo mandato

 

Nell'ascensione Gesù sale al cielo, scompare, per incominciare ad essere presente ovunque.

 

Al principio "tutti erano assidui e concordi nella preghiera".

 

Concordia non è assenza di litigi.

 

Tra gli apostoli, nonostante uno di loro abbia tradito, nonostante siano rimasti senza Gesù, loro guida, subito c'è voglia di organizzarsi, per portare la Parola fino ai confini della terra.

 
Calendario incontri 2007-2008 Stampa

Dall'ascolto della Parola alla Missione...
Leggiamo insieme gli Atti degli Apostoli


29-30 settembre
27-28 ottobre
24-25 novembre
14-16 dicembre convivenza
26-27 gennaio
23-24 febbraio
29-30 marzo
25-27 aprile convivenza
24-25 maggio
21-22 giugno
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