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Atti capitolo 2 Stampa

Venegono, 27 e 28 ottobre 2007

Cammino LMC

 

Atti degli apostoli - capitolo 2

La Pentecoste e la prima comunità




Brani per la riflessione...




1

l primo brano è tratto da una riflessione di Tresina Caffi, missionaria saveriana in RD Congo.

A partire da Atti 2, 42, Teresina ragiona sulla prima comunità cristiana.


Il ritratto della comunità cristiana in Atti 2,42

At 2,42a: "Erano assidui nell'insegnamento degli apostoli..."

La Parola nella vita della Chiesa

C'è stato un lungo tempo in cui la parola di Dio era rimasta ai margini della vita del popolo cristiano. Si era giunti a temere di darla in mano ai credenti. Ma noi viviamo l'epoca fortunata del dopo Concilio.


L'ascolto della Parola nelle giovani chiese

Siamo dunque ora in un'epoca felice, in cui, se vogliamo, possiamo abbondantemente nutrirci alla parola di Dio. La chiesa parla di due mense, degne dello stesso rispetto: la Parola e l'Eucaristia. In missione ci capita di vedere con i nostri occhi con una evidenza particolare la forza della Parola. In Africa ad esempio, per molte comunità l'accesso ai sacramenti non è cosa frequentemente possibile. La Messa viene celebrata una volta ogni mese o più mesi o un anno. Questo vale anche per gli altri sacramenti ordinari della vita cristiana. C'è però un tesoro sempre possibile: la Parola di Dio.

In un mondo in cui un libro è una rarità, in cui non trovi un foglio di carta in giro, dove i quaderni scritti vengono riutilizzati per mettervi le noccioline al mercato, in cui nessun alunno normale ha dei libri, e neppure l'insegnante: tutto si trasmette di quaderno in quaderno... in questo mondo avaro di libri, uno però è ambito, desiderato, posseduto da un certo numero di cristiani, in particolare da chi ha una funzione nella comunità: la Bibbia.

Così, la sera, ultimati i lavori dei campi, preso il cibo del giorno, prima che il sole tramonti, seduto appoggiato alla parete esterna della sua abitazione, il catechista o semplicemente il credente apre la sua Bibbia e legge.

Leggere la Parola di Dio è uno degli stimoli che spinge tanti a seguire, anche adulti, dei corsi di alfabetizzazione. Quando una mamma riesce a leggere, quando può leggere un brano di fronte alla comunità, è presa da un grande senso di gioia e di fierezza.

Ci si dirà: ma che cosa capiscono? E se capissero sbagliato? Già sant'Agostino, nel IV secolo dopo Cristo diceva che chi legge con amore non può far errori troppo grossi nell'interpretazione. Noi constatiamo che davvero lo Spirito Santo dà a ciascuno, con la fede e il battesimo, la capacità di leggere la Scrittura comprendendola.

La lettura della Parola si fa in particolare in comunità. E' attorno alla Parola che si radunano i cristiani di un villaggio. Sotto un albero, quando o finché non c'è a disposizione un ambiente capace di ospitarla, ogni settimana, la piccola comunità, formata al massimo da 50 famiglie (non tutte frequentano) si riunisce. In essa sono definiti i vari ruoli: responsabile, vice, segretario, cassieri... uomini o donne.

L'incontro si apre con la preghiera e lo scambio fraterno di notizie. Poi si ascolta un brano della parola di Dio. Il responsabile o il catechista può introdurla o commentarla brevemente. Poi chi desidera esprime come la Parola l'ha toccato. Quando partecipiamo a questi incontri di comunità, restando anche noi tra i partecipanti, ascoltiamo commenti profondi che ci fanno intuire che Dio si rivela ai piccoli e che ogni uomo è capace di ascolto fruttuoso della Parola.

Dopo il commento, si esprimono delle preghiere e si raccolgono contributi per le necessità della comunità. Si relaziona circa gli impegni assunti la settimana precedente: si si sono realizzati, come stanno le persone malate o sole che si sono andate a trovare. Se sono nati dei bambini, se ne dà notizia e il gruppo delle mamme dice se ha aiutato la puerpera nei lavori, ad esempio attingendole l'acqua. Si passa poi a distribuire i compiti futuri: connessi con la parola direttamente o indirettamente, perché ogni Parola veramente accolta è luce e forza per l'azione. Qualcuno s'impegna ad andare a trovare un malato, a casa o all'ospedale, altri a prestare aiuto a mamme che hanno appena partorito o ad anziani o altre persone in difficoltà. L'attenzione va anche a quei credenti che si sono allontanati dalla vita della comunità. Chi andrà a ricontattarli?

Un canto conclude l'incontro. In queste comunità, riunite attorno alla Parola di Dio c'è gioia, fraternità. Davvero, anche in contesti poveri, nessuno più è nella miseria, perché è soccorso dalla solidarietà della comunità.

I non cristiani si stupiscono della gioia di queste persone, del loro amore fraterno e dell'aiuto verso chi nel bisogno, senza guardare la sua appartenenza etnica o religiosa. Così, spesso nuove persone si presentano alla riunione della comunità e da simpatizzanti diventano poi catecumeni e quindi vengono accolti pienamente nella chiesa.

Un quadro ideale come quello di Luca? Certo, come anche Luca fa intravedere nel racconto degli Atti (vedi l'episodio di Anania e Saffira), così in queste giovani chiese non mancano le difficoltà, le incoerenze. Ci possono essere tanti errori nella vita delle comunità: un responsabile troppo protagonista o quasi dittatore, del denaro raccolto e non utilizzato al suo fine, inadempienze negli impegni assunti, preferenze nell'aiutare, mancanza di profondità spirituale... Tutto può accadere. Può anche succedere che, inorgoglito della Parola ascoltata uno presuma di averne la chiave di lettura e se ne vada, col libro sottobraccio a fondare una nuova chiesa, magari anche in vista di introiti economici. Tutto può succedere nella micro-chiesa come nella macro.

Però, queste comunità fondate sulla Parola hanno resistito anche durante la guerra. Quando la gente fuggiva in foresta, tra le poche cose, portava la Bibbia e quel piccolo gruppo di gente mancante di tutto si riuniva e continuava a leggere la Parola e a pregare nell'estrema precarietà della loro situazione.


At 2,42b: Assidui nell'unione fraterna

Comunità casa e scuola di comunione

Scrivono i Vescovi italiani nel documento per il decennio 2001-2010 "Comunicare il vangelo in un mondo che cambia":

"Raggiunti dall'amore di Dio "mentre noi eravamo ancora peccatori" (Rm 5,8) siamo condotti ad aprirci alla solidarietà con tutti gli uomini, al desiderio di condividere con loro l'amore misericordioso di Gesù che ci fa vivere. La Chiesa è totalmente orientata alla comunione. Essa è e dev'essere sempre, come ricorda Giovanni Paolo II, "casa e scuola di comunione" (NMI 43).


Vita di comunione in Africa Centrale

Una ricca tradizione

Per gli Africani, tutte le molteplici creature sono percorse da un'unica forza vitale che Dio ha dato agli animali, ai vegetali, ai minerali, agli uomini, attraverso la quale essi sono. Ma questa forza ha per vocazione di crescere. L'uomo occupa un posto centrale, perché è capace di rafforzare la sua forza, di realizzarsi come persona, essendo sempre più libero all'interno di una comunità solidale. Tutti gli altri esistenti non sono che degli strumenti al servizio di questo scopo. Infatti il rafforzamento dell'uomo, centro dell'universo visibile, conduce, necessariamente, al rafforzamento dell'insieme della rete, al rafforzamento di Dio, che è la pienezza dell'ESSERE.

La solidarietà familiare, la famiglia allargata, patriarcale, alla maniera biblica - scrive Jean-Marie Abanda Ndengue - è una concezione tipica dell'Africa nera: "Noi vi scopriamo il senso degli altri, un altruismo forse fondato sul legame di sangue, ma che uccide l'egoismo naturale; grazie a quest'apertura verso gli altri, ci si sente sostenuti nella tribolazione e lungo tutta la vita.

La solidarietà africana stupisce gli europei che incontrano questi popoli. Nel villaggio tradizionale non esiste un povero che manchi di cibo, perché all'ora dei pasti potrà sempre avvicinarsi ad una famiglia che sta mangiando e prendere parte al pasto. Non si deve infatti mangiare chiusi in casa, ma all'aperto. È normale prestarsi le cose fra vicini. In tempi normali, non esiste il bisogno di orfanotrofi: se i genitori non ci sono più, interviene la famiglia allargata a prendersi cura dei bambini. La festa di una famiglia è la festa del villaggio e così pure il lutto. Il parente che ha una buona posizione sociale aiuta economicamente il resto della parentela, per esempio ospitando per anni dei figli di parenti e facendoli studiare.

La comunità cristiana e i suoi testimoni

La comunità cristiana va oltre la tribù, riunisce persone di ogni tribù e allarga la solidarietà a chiunque è nel bisogno, al di là di ogni distinzione di etnia o di religione. Questa è una testimonianza forte, che attira nelle comunità cristiane d'Africa sempre nuovi aderenti.

L'Africa centrale sta vivendo da quasi sette anni una guerra durissima, in cui popoli ed etnie si sono scontrati, spinti da interessi di poteri economici spesso estranei all'Africa. Un dramma che ha messo in questione la stessa evangelizzazione: come abbiamo evangelizzato? Il Vangelo resta la speranza più profonda dell'Africa in guerra. Senza la capacità di perdonare che viene da Cristo, non sarà possibile ristabilire la comunione. In mezzo a tante violenze, ci sono esempi splendidi di testimonianza cristiana. Ecco alcune testimonianze.

"In Burundi dal 1993 hutu e tutsi si combattono senza sapere perché, forse eccitati da politici che vogliono aggrapparsi al potere o che lo vogliono raggiungere. Vittime sono sempre donne e bambini innocenti, che non saranno mai, in ogni caso, associati a questo potere né a questi beni materiali. Dobbiamo tuttavia riconoscere che alcune persone sono rimaste degne di loro stesse ed hanno conservato interamente la loro umanità; hanno rifiutato, al rischio della loro vita e spesso anche sacrificandola, di cadere in questi orrori.

La signora Elisabeth Barakamfitiye, di una sessantina d'anni, di etnia tutsi, un giorno del 1995, a Bujumbura, passando davanti al mercato, vide dei militari estremisti tutsi si stavano accanendo su un'anziana donna , pugnalandola da ogni parte, perché era hutu. I passanti , le auto che passavano lasciavano correre, indifferenti. Elisabeth s'è gettata con tutto il suo corpo su questa signora, che stavano assassinando sotto i suoi occhi. Ella poté così evitare il peggio, ma fu a sua volta colpita e, anche per la sua salute fragile, rimase paralizzata per tutta la sua vita. (Deo Ngendahayo)

Médiatrice è una donna ruandese, tutsi, il cui marito è hutu. Abitavano in Ruanda ed erano benestanti. Fuggiti in Zaire, hanno dovuto adattarsi a vivere al campo profughi, in una tenda. I fratelli di lei hanno posti di prestigio nell'attuale governo e le scrissero: "Vieni, lascia quel marito, ti ucciderà! Qui starai bene, i tuoi figli potranno studiare". La signora venne da me a leggermi la lettera piangendo: "Quando mi sono sposata, la mia famiglia era d'accordo sul nostro matrimonio. Ora che ci sono difficoltà, mi chiedono di lasciare mio marito. Ma io non posso, gli ho promesso fedeltà nella buona e nella cattiva sorte. Nella tenda dove viviamo, piove, abbiamo fame, ma io non posso lasciarlo. L'ho scelto per sempre". Ed è rimasta." (Enathe Marekabiri).


At 2,42c: Erano assidui... nella frazione del pane

E don Tonino Bello scriveva:

"Ricordate Oscar Romero? Un attimo prima che venisse ammazzato disse: qui, in questo calice, c'è del vino che attende di diventare sangue. E si abbatté su di lui una scarica di mitragliatrice. Roger Garaudy diceva ai cristiani: Cristo è nel pane. Però ricordate che i discepoli lo riconobbero allo spezzare del pane. Se non c'è frantumazione del nostro pane, della nostra ricchezza, del nostro tempo, difficilmente i discepoli lo riconoscono. (...). Il frutto dell'eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni... Le nostre eucaristie dovrebbero essere delle esplosioni che ci scaraventano lontano e, invece, il Signore dopo cinque minuti ci rivede ancora lì dinanzi all'altare. (...) Un solo corpo, un solo Spirito. Ma quanto costa ciò! Il nostro impegno sacerdotale, cristiano, non può non essere che crocifisso. (...) Chi si comunica dovrebbe farsi commensale di ogni uomo. (...).

L'eucarestia rimane... una sorta di sacramento incompiuto. Rimane incompiuto quando manca la sequela eucaristica. E che cosa significa, fratelli miei, sequela eucaristica? (...) Vivere l'eucarestia è lasciarsi andare, lasciarsi afferrare dall'onda di Gesù Cristo. Lasciarsi andare senza i tuoi tracciati, senza i tuoi programmi, gli itinerari che ti sei schematizzato tu. Io vorrei esortarvi, cari fratelli, a un modo di vivere più abbandonato, più libero. Sentitevi uomini liberi, uomini che non sono lì incastrati nel sistema. (...) L'eucarestia è uno scandalo da vivere fino in fondo (...).

Occorre aver coscienza che noi siamo corpo di Cristo crocifisso alla storia. Coscienza di non possedere la Verità, quanto di essere posseduti dalla Verità. È la Verità che ci afferra, è Cristo che ci afferra. Mentre noi molte volte siamo coloro che esprimono questa superbia dottorale, superbia docente. Avere la coscienza che noi siamo corpo di Cristo crocifiggente. La comunità eucaristica, come Gesù, deve essere sovversiva e critica verso tutte le miopi realizzazioni di questo mondo. Noi tra le opere di misericordia corporale abbiamo sempre insegnato che bisogna consolare gli afflitti, ma non abbiamo mai invertito l'espressione dicendo che bisogna affliggere i consolati. Tu devi essere una spina nel fianco della gente che vive nelle beatitudini delle sue sicurezze (...).

Occorre avere la coscienza che noi siamo il corpo festivo di Gesù Cristo. E non solo il suo corpo feriale, crocifisso e crocifiggente. Perché celebrare con autenticità i giorni festivi significa salvare i giorni feriali. Come si dovrebbe scatenare il senso della festa, specialmente la domenica! (...).

Gesù Cristo è il nuovo Adamo. Il primo ha frantumato l'umanità col peccato. Il secondo l'ha ricostruita nell'unità. (...) Ebbene, noi credenti dobbiamo collocarci sulla stessa linea di riconduzione dell'unità iniziata da Cristo. E' questo il servizio fondamentale che ci viene richiesto. Di qui deve scatenarsi il nostro impegno contro tutto ciò che favorisce la disgregazione: l'egoismo, l'accaparramento dei beni che esclude tanta gente dal banchetto della vita, la violenza, l'uso della forza, il ricorso alle armi, il crescente sviluppo dell'apparato bellico, la progressiva militarizzazione del territorio, il commercio clandestino e palese delle armi cui si legano i fenomeni della droga e della mafia..

Ecco: sono queste le linee sui cui dobbiamo esprimere le nostre solidarietà "lunghe" col mondo, anche quando il mondo ci contrasta. Gli altri gesti quotidiani, quelli cioè che come volontari o come obiettori esprimete per assicurare ai diseredati un po' di minestra, o un abito per coprirsi, o un letto per dormire, costituiscono quelle solidarietà "corte" che pure dobbiamo mettere in atto se vogliamo che il Signore un giorno ci riconosca come suoi amici."


Eucaristia e Missione

Tre messe nel Congo ex-Zaire. Erano a messa i cristiani di Kasika, il 23 agosto 1998, quando arrivò il drappello con l'ordine di ammazzare la gente. Il prete fece appena a tempo a far fuggire alcuni della porta dietro l'altare. Gli altri, insieme a lui, ad un seminarista, a tre suore, furono uccisi insieme a centinaia di persone del villaggio e dei villaggi circostanti. Il sangue di Cristo consacrato si unì ad una quantità immensa di sangue versato. Un'eucaristia terribile. I sopravvissuti fuggirono in foresta.

Era quasi la Pasqua di quest'anno, a Bukavu. Avevo vissuto una mattinata di ritiro con un gruppo di suore congolesi, a cui la guerra aveva portato via nell'anno precedente nove consorelle, uccise per voluto stare con la gente, fino a condividerne il martirio. A tavola si aggiunse a noi un giovane prete congolese, che le suore conoscevano. Gli fecero posto davanti a me e così sentii la sua storia. Veniva dalla foresta, dove la gente si era rifugiata, lasciando il villaggio ove aveva sede la Parrocchia. Vivevano di stenti, sempre temendo di essere attaccati o dai militari dell'esercito di occupazione o dai gruppi di resistenza che spesso a loro volta angariavano la popolazione, per spillarne l'ultima gallina, l'ultimo soldo. Solo di tanto in tanto la gente arrischiava una scappata al campo per prendervi un po' di cibo. Con la gente erano, appunto, i loro preti. Dalla gente protetti, dalla gente cercati per continuare ad aggrapparsi alla sola certezza rimasta: un Dio nei cieli che vede, sa e darà un giorno riposta. Benché nel rischio, i cristiani avevano ricostituito in foresta le comunità ecclesiali di base, che si riunivano talvolta nella "cappella" di fortuna apprestata, talaltra, in caso di maggior pericolo, in piccoli gruppi nelle casette che la gente si era costruita. Con alcuni giorni di cammino a piedi, superati in strada vari pericoli, il giovane prete era arrivato a Bukavu e diceva: "Vengo a cercare il vino per la messa, le ostie le abbiamo ancora".

La sera della vigilia di Pasqua nella città la gente si affrettava ad entrare in chiesa, per trovare posto: la messa sarebbe cominciata di lì a poco. C'era un'aria di festa smorzata come in un matrimonio celebrato da una famiglia in lutto. La festa povera di chi non può permettersi il vestito nuovo, la festa dignitosa di chi tiene duro nella prova ed è lì, sopravvissuto per mille solidarietà ricevute ed offerte. Bisogna contemplarla, la dignità del povero con la sua camicia mille volte lavata. Non c'è paragone con l'ostentazione del ricco. Nella messa, molti giovani ed adulti ricevettero il battesimo, dopo quattro anni di preparazione. La corale cantò, da sola e con l'assemblea, tantissimi canti. Si danzò la certezza di realtà che la guerra non può distruggere, la speranza di un mondo di pace. Mi chiesi se il danzare in chiesa nel dramma della guerra avesse un senso. Quelle mamme, uscendo, si sarebbero ritrovate con la difficoltà di nutrire la famiglia, con il pericolo. Capii che danzare, in quell'ora non era fuga: era un'isola di libertà che il Signore offriva loro nella sua casa, un tempo per riprendere fiato, per tornare ad ascoltare, parole indistruttibili, mentre tutto frana, parole vere, mentre la menzogna e la violenza sembrano trionfare; un tempo per rinfrancare la speranza, per darsi coraggio stringendosi la mano. Anche al vicino che ti capita e che appartiene al popolo che ti sta muovendo guerra. C'è un mistero che accade, nella messa.

Che continua fuori. In miracoli come la moltiplicazione dei pani. Una città affamata accoglie migliaia di sfollati e non ce n'è uno all'aperto, tutti hanno trovato ospitalità. In una città allo stremo le comunità cristiane sanno ancora organizzarsi per portare a turno il cibo agli ammalati all'ospedale (l'ospedale non dà loro da mangiare). In una città che sopravvive a fatica c'è ancora chi presta soldi ad un altro che non ha racimolato nulla durante il giorno, sapendo che non gli verranno ridate. O chi mentre la sera scende e una madre è desolata perché senza cibo per i suoi, sa vedere e tendere una tazza di fagioli da cuocere. È l'Eucaristia che continua.

Loro celebrano guardando a Cristo. Sentono così vicina la sua storia alla loro. Questo popolo, questi popoli che subiscono tutte le guerre, che pagano le spese di tutte le cosiddette liberazioni, che sono obbligati a danzare per tutti i dittatori, che sono fatti tacere non appena osano parlare, questi popoli portano oggi il peccato del mondo. Celebrano il mistero di Cristo, ma anche il loro mistero. Celebrare, per noi, è schierarci con Cristo e con tutti coloro che oggi sono schiacciati. Celebrare è imparare ad amare d'un solo amore Cristo e le sue membra sofferenti oggi.


At 2,42d: "Erano assidui ... nelle preghiere"

La quarta caratteristica della comunità cristiana descritta da Luca è il fatto che "erano assidui... alle preghiere".

Quale preghiera? L'esperienza dell'Africa

Da anni in Africa (e non solo) prosperano le sette più diverse, spesso sostenute dalle loro "Chiese madri", impiantate negli U.S.A.. La preghiera è un aspetto da esse sottolineato, sia di lode che di supplica. I loro adepti passano ore e giornate in canti rumorosi, accompagnati da tamburi. Si esalta Gesù unico Salvatore, che risolve ogni problema, guarisce ogni male. I responsabili promettono ai loro aderenti la guarigione grazie alla preghiera, la pace del cuore, la fine del malocchio, la soluzione ai loro problemi di povertà, di disoccupazione, ecc. Talora proibiscono ai loro membri di ricorrere a medicine, a iniezioni e alla trasfusione di sangue, insegnando che la preghiera da sola porta la guarigione. Le veglie di preghiera si moltiplicano ad un ritmo inquietante: vi prendono parte per delle intere giornate delle persone disoccupate e nell'insicurezza alimentare.

Ma esiste un'altra preghiera, quella cristiana. I cristiani della Repubblica Democratica del Congo pregano. Proprio perché hanno così poche sicurezze, sono costantemente coscienti di essere sostenuti dalla provvidenza di Dio. Quando a una mamma affaticata sotto il peso della sua gerla o in un lungo viaggio a piedi, offri un passaggio in macchina, ella esclama: "Il Signore c'è!". Come pure per ogni evento positivo che la solleva in un problema: una medicina, una visita inattesa, ecc.

Una preghiera particolarmente affezionata è rivolta a Maria, che sentono vicina: mamma come loro, regina di tutte le mamme. Non c'è cristiano/a, si può dire, che non abbia il rosario, spesso al collo. Maria è per essi segno della maternità di Dio.

Quando si sentono in casa, umiliate - è più spesso il caso delle donne - dal consorte che tradisce, picchia, ignora i suoi doveri verso la famiglia; quando a livello sociale si sentono oppressi da una guerra senza fine, donne e uomini pregano, personalmente e comunitariamente. Sentono, come lo straniero, l'orfano e la vedova dell'Antico Testamento, che Dio è il loro avvocato, è Colui che sa, Colui cui spetta l'ultima parola. Mentre i grandi, in hotel di lusso, discutono di pace - loro che fanno la guerra -, il popolo cristiano sa che la sua vita è nelle mani di Dio. La stessa morte è accolta con semplicità e realismo, con la certezza che si è nelle mani del Padre, si va nella sua casa.

Una preghiera che torna frequente sulle labbra della gente oppressa è la seguente: "Signore, fino a quando?". Con alcuni di loro abbiamo ricercato nei Salmi quante volte appare questa domanda, nata probabilmente da analoga sofferenza di fronte a situazioni angosciose che non sembrano mai finire.



2

Il secondo brano è di Enrico Galavotti, un laico milanese laureato in filosofia e teologia. Il brano analizza il capitolo 2 rispetto ai messaggi di Paolo e Pietro nel nuovo testamento.


Atti 2

La pentecoste è una descrizione simbolica di un fatto reale: la decisione che ad un certo punto presero gli apostoli o comunque la primitiva comunità cristiana di continuare il messaggio di Gesù in forme e modi non originari.

Nel racconto appare evidente che la storica decisione venne presa dall'intero collegio apostolico, benché i 28 capitoli degli Atti parlino delle vicende di pochissimi apostoli e soprattutto di quelle che un discepolo diretto del Cristo non fu mai stato: Paolo di Tarso.

Che la decisione la si voglia qui far apparire come presa unanimemente dal consiglio è testimoniato simbolicamente dal fatto che le "lingue di fuoco" scendono contemporaneamente sui Dodici, determinando conseguenze analoghe (glossolalia). Quanto però fosse davvero "unanime" è difficile dirlo (il vangelo di Giovanni parla p.es. di un Tommaso scettico). In ogni caso il cosiddetto "primato di Pietro", sostenuto dalla chiesa romana, non trova qui alcun riscontro. Pietro anzi dovette rinunciare categoricamente a diventare capo degli apostoli il giorno stesso in cui si rese conto che il messaggio originario di Cristo non poteva essere continuato, ovvero che poteva esserlo in altre forme e modi solo sulla base di una decisione collegiale.

Anche in Atti 9, 32s la coppia Pietro-Giovanni presto si divide e della predicazione di Giovanni non si sa più nulla. Si ha come l'impressione che Pietro abbia usurpato quello che doveva essere, secondo il lascito testamentario del Cristo in croce (Gv 19,25), il diritto di successione di Giovanni alla guida del movimento nazareno: cosa che l'autore degli Atti ha del tutto trascurato, facendo in modo di mascherare il più possibile tale usurpazione (su cui però Giovanni torna nella chiusa del suo vangelo (21,18s.).

La pentecoste insomma è l'espressione di un tradimento ben orchestrato: gli apostoli trasformano l'esperienza messianica del Cristo, politica per definizione, in un'esperienza mistica o spiritualistica, in virtù della quale la liberazione d'Israele dai romani diventa niente di più che una semplice redenzione personale dal peccato d'aver ucciso o d'aver lasciato uccidere il messia.

Conseguenza di ciò è che gli apostoli (qui per bocca di Pietro) iniziano a predicare l'uguaglianza universalistica non degli oppressi ma di tutti gli uomini (inizialmente di tutti i giudei): è il cosmopolitismo cristiano, qui preannunciato da Pietro, ma che in realtà verrà messo in atto da Paolo, a testimonianza che anche questo racconto, come quello del capitolo precedente, di storico ha ben poco.

In effetti, se anche volessimo dare per scontato che Pietro abbia pronunciato tale discorso nei termini riportati da Luca, è da escludere che il cosmopolitismo riguardasse anche il mondo pagano: questa infatti sarà un'acquisizione del paolinismo, che il petrinismo si troverà ad accettare obtorto collo. In quel momento significava semplicemente l'uguaglianza di tutti "i giudei osservanti di ogni nazione"(v. 5).

Il revisionismo c'era, ma non in maniera così plateale come avverrà in Paolo. Lo scopo del discorso di Pietro era quello di trasformare l'esigenza di una liberazione politica della nazione d'Israele dal dominio romano nell'esigenza di affermare un'uguaglianza etico-morale di tutti i giudei sparsi nell'impero romano, resasi necessaria anche a motivo del fatto che tra gli ebrei della diaspora e i giudei della madrepatria (e l'episodio di Stefano lo dimostrerà) non correva buon sangue. I capi giudei, in particolare, venivano accusati da un lato di essere ideologicamente troppo chiusi e rivolti al passato e politicamente di assumere atteggiamenti troppo acquiescenti nei confronti dei romani.

Pietro però ribalta i termini della questione: se i giudei della madrepatria si pentono d'aver ucciso il Cristo e se tutti i giudei accettano l'idea della resurrezione, si possono impostare su basi nuove i rapporti tra Giudea e Diaspora, cioè si può allargare il raggio d'azione del messianismo di Gesù, rivestito, beninteso, di un involucro idealistico.

Il discorso di Pietro, a ben guardare, è tutto volto a giustificare il tradimento degli apostoli, di cui lui fu l'artefice principale. Egli si rende conto che i tempi permangono drammatici (parla di "ultimi giorni", v. 17), ma ne conclude (pensando anche di dare una spiegazione al mistero della tomba vuota) che agli uomini non resta che attendere "il giorno del Signore"(v. 20), cioè il ritorno sulla terra del Salvatore.

Pietro mostra in due modi d'essere convinto del ritorno glorioso e imminente del Cristo redivivo: dicendo che è stato ucciso "secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio"(v. 23) e dicendo che è "risorto" perché "non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere"(v. 24). Quanto egli fosse personalmente convinto di queste cose è difficile dirlo. Pietro sicuramente avvertiva forte l'esigenza politica di tenere unito il movimento nazareno, e se in quel momento l'unico modo per dimostrarlo era quello di raccontare cose del tutto fantasiose, che con l'esigenza di una politica rivoluzionaria c'entravano ben poco, ciò non deve stupirci, poiché qui si ha a che fare con una popolazione tradizionalmente molto religiosa, oltre che politicamente agguerrita.

Semmai è il fine ultimo del suo discorso che deve lasciarci perplessi. Egli infatti, ritenendo la morte del messia come necessaria alla manifestazione gloriosa del suo imminente ritorno (la parusia), finiva con l'interpretare la tomba vuota come un invito alla rassegnazione e alla passività politica.

Sarà proprio da questa falsa interpretazione della scomparsa del Cristo che nascerà l'esigenza di riallacciare i rapporti con le autorità giudaiche costituite, offrendo a queste la possibilità di credere nella messianicità del Cristo risorto (v. 36), in cambio della rinuncia cristiana a lottare politicamente per l'abbattimento del compromesso tra potere giudaico e potere romano, in forza del quale il Cristo fu giustiziato.

Le autorità ovviamente avrebbero dovuto accettare la decisiva differenza tra Davide e Cristo (vv. 29 ss). Il Cristo è più grande di Davide esclusivamente perché è "risorto" e la resurrezione ha valore in quanto rende inutile la lotta politica. In questo senso però ci si può chiedere se l'esigenza di diffondere il concetto di uguaglianza universalistica di tutti gli ebrei "sparsi nel mondo" (e in seguito di tutti gli uomini), sia contestuale o posteriore all'idea che la cosiddetta "resurrezione" di Cristo avrebbe dovuto ricostituire, eo ipso, il regno davidico.

La rinuncia all'impegno politico rivoluzionario è ben attestata anche dal fatto che Pietro, in maniera regressiva, ripropone il battesimo di Giovanni "riveduto e corretto", cioè amministrato "nel nome di Gesù Cristo" per ricevere "il dono dello Spirito Santo" (v. 38). Pietro chiama alla penitenza per la morte del messia tutti coloro che non fecero niente per salvarlo dall'esecuzione capitale, ma anche coloro che ne avrebbero voluto attendere il ritorno senza far nulla per meritarselo.

E' singolare tuttavia il fatto che mentre per il Battista il battesimo doveva servire unicamente come occasione simbolica per predisporsi moralmente alla venuta di un regno di liberazione dai romani, per l'apostolo Pietro lo stesso battesimo serve per rinunciare all'idea di dover lottare politicamente per ottenere questo stesso regno. Pietro recupera il valore di una cosa che il Cristo aveva già superato.

Si può quindi sostenere, in sintesi, che mentre col concetto di "resurrezione" si predicava il ritorno imminente del Cristo glorioso, per la restaurazione del regno davidico, col concetto di "ascensione" si posticipa questo ritorno a un futuro imprecisato, e col concetto di "pentecoste" si afferma che il suo ritorno si realizza subito in maniera mistica, attraverso lo Spirito Santo che effonde le sue virtù morali sui battezzati.

* * *

In questo capitolo vi è anche la descrizione delle caratteristiche fondamentali della primitiva comunità cristiana: 1. insegnamento apostolico, 2. fratellanza e condivisione materiale dei beni posseduti, 3. non più attività politica ma simbolica o religiosa: eucarestia e preghiere (v. 42). Il che produce "senso del timore" e culto degli apostoli (v. 43).

La comunità materiale era elementare ma efficace, almeno nei limiti che la costituivano: "chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno"(v. 45). Da sottolineare che in Luca l'assenza di proprietà privata, ovvero la gestione collettiva dei beni appare come condizione irrinunciabile della stessa comunione spirituale. Gli aspetti sono inscindibili: lo si comprende laddove egli parla di "unione fraterna" e di "comunione", senza specificare alcunché.

Quando nella chiesa cristiana avranno fatto il loro ingresso i ceti medi e medio-alti della società, il realismo e la concretezza della comunità primitiva cominceranno ad essere progressivamente trascurati (l'episodio di Anania e Saffira può essere letto come il tentativo di arginare un fenomeno del genere). A partire da quel momento la prassi comunionale non terrà più conto degli aspetti materiali dell'esistenza, ma si limiterà a sviluppare tutta una teologia moralistica del dovere per i ricchi e della pazienza per i poveri, che ancora oggi permane inalterata negli ambienti ecclesiastici di potere. Per i bisogni straordinari ci si appellerà alle diverse offerte ed elemosine, più o meno volontarie (vedi l'uso delle decine, delle collette ecc.).

La comunione materiale resta primitiva soprattutto perché non prevede la collettivizzazione dei principali mezzi produttivi (la terra, gli strumenti del lavoro...), né la socializzazione del lavoro e della vita commerciale e artigianale. Al massimo si prevede la fondazione di casse comuni per l'affronto di bisogni particolari di piccola e media entità.

La comunità poteva reggersi in piedi solo se gli aderenti già lavoravano in proprio o presso terzi, o comunque se la maggioranza disponeva di un minimo di capitali. È da escludere quindi che al suo interno fossero presenti vasti strati del proletariato nullatenente (schiavi, coloni, contadini liberi fortemente indebitati...).

Una distribuzione democratica del denaro ("secondo il bisogno"), in assenza di socializzazione dei mezzi produttivi, altro non poteva significare che elargizione temporanea e limitata di una determinata quota dei fondi a disposizione. A questa comunità mancava completamente un progetto rivoluzionario sulla società: essa era soltanto un mezzo per difendersi dagli eccessi della società schiavistica e dagli abusi finanziari dello Stato romano. Parte del proletariato (la plebe) vi poteva accedere, ma senza sperare, di regola, in una vera emancipazione sociale né quindi in un vero protagonismo politico. E' vero che qui ancora non siamo in presenza dello sfruttamento del "contadino cristiano" da parte dell'"imprenditore cristiano", ma il passo sarà breve.

Di sicuro una comunità del genere, che peraltro continuava a "frequentare il tempio" di Gerusalemme, pur facendo le agàpi o le eucarestie nelle case private (v. 46), non costituiva una minaccia per l'ordine pubblico. Essa "godeva le simpatie di tutto il popolo"(v. 47) e i romani non ebbero motivo di pensare che al suo interno si proseguiva il messaggio rivoluzionario del movimento nazareno.



3

Il terzo ed ultimo brano riporta il discorso tenuto da papa Wojtyla nel 1989. Giovanni Paolo II sottolinea il legame tra l'attività missionaria e la missionarietà alla quale siamo tutti chiamati; legame perlatro ben presente nell'enciclica Ad Gentes.

Giovanni Paolo II - Udienza generale 20 settembre 1989

1. Nel decreto conciliare Ad Gentes, sull'attività missionaria della Chiesa, troviamo ben collegati l'evento della Pentecoste e l'avvio della Chiesa nella storia: "Fu nel giorno della Pentecoste che esso (lo Spirito Santo) si effuse sui discepoli... Fu dalla Pentecoste... che cominciarono gli «atti degli Apostoli»" (Ad Gentes, 4). Se dunque, fin dal momento della sua nascita, uscendo nel mondo il giorno di Pentecoste, la Chiesa si è manifestata come "missionaria", ciò è avvenuto per opera dello Spirito Santo. E possiamo subito aggiungere che la Chiesa rimane sempre tale: essa permane "in stato di missione" (in statu missionis). La "missionarietà" appartiene alla sua stessa essenza, è una proprietà costitutiva della Chiesa di Cristo, perché lo Spirito Santo l'ha fatta "missionaria" fin dal momento della sua nascita.

2. L'analisi del testo degli Atti degli Apostoli, che narra il fatto della Pentecoste (At 2, 1-13), ci permette di cogliere la verità di questa asserzione conciliare, appartenente al comune patrimonio della Chiesa.

Sappiamo che gli apostoli e gli altri discepoli riuniti con Maria nel Cenacolo, udito "un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo...", videro scendere su di sé delle "lingue come di fuoco" (cf. At 2, 2-3). Nella tradizione ebraica il fuoco era segno di una speciale manifestazione di Dio che parlava per l'istruzione, la guida e la salvezza del suo popolo. La memoria della esperienza meravigliosa del Sinai era viva nell'anima di Israele e lo disponeva a capire il significato delle nuove comunicazioni contenute sotto quel simbolismo, come ci risulta anche dal talmud di Gerusalemme (cf. Hag 2,77 b, 32; cf. etiam il "Midrash Rabbah" 5, 9 cum Es 4, 27). La stessa tradizione ebraica aveva preparato gli apostoli a comprendere che le "lingue" significavano la missione di annunzio, di testimonianza, di predicazione, della quale Gesù stesso li aveva incaricati, mentre il "fuoco" era in rapporto non solo con la legge di Dio, che Gesù aveva confermato e completato, ma anzi con lui stesso, con la sua persona e la sua vita, con la sua morte e la sua Risurrezione, giacché egli era la nuova torah da proporre nel mondo. E sotto l'azione dello Spirito Santo, le "lingue di fuoco" divennero parola sulle labbra degli apostoli: "Furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi" (At 2, 4).

3. Già nella storia dell'antico testamento si erano avute manifestazioni analoghe, nelle quali veniva dato lo spirito del Signore in ordine ad un parlare profetico (cf. Mi 3, 8; Is 61, 1; Zc 7, 12; Ne 9, 30). Isaia aveva anzi veduto un serafino che gli si avvicinava tenendo in mano "un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare", e con esso gli toccava le labbra per mondarlo da ogni iniquità, prima che il Signore gli affidasse la missione di parlare al suo popolo (cf. Is 6, 6-9 ss.). Gli apostoli conoscevano questo simbolismo tradizionale ed erano perciò capaci di afferrare il senso di ciò che avveniva in loro in quella Pentecoste, come attesta Pietro nel suo primo discorso, collegando il dono delle lingue alla profezia di Gioele circa la futura effusione dello Spirito divino, che doveva abilitare i discepoli a profetare (At 2, 17 ss; cf. Gl 3, 1-5).

4. Con la "lingua di fuoco" (At 2, 3), ciascun apostolo ricevette il dono multiforme dello Spirito, come i servi della parabola evangelica avevano tutti ricevuto un certo numero di talenti da far fruttificare (cf. Mt 25, 14 ss.): e quella "lingua" era un segno della coscienza che gli apostoli avevano e tenevano viva circa l'impegno missionario a cui erano votati e chiamati. Infatti, non appena furono e si sentirono "pieni di Spirito Santo, cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi". Il loro potere veniva dallo Spirito, ed essi ne eseguivano la consegna sotto la spinta interiore impressa dall'Alto.

5. Ciò avvenne nel Cenacolo, ma ben presto l'annuncio missionario e la glossolalia o dono delle lingue oltrepassarono le pareti di quell'abitazione. Ed ecco verificarsi un duplice fatto straordinario, descritto dagli Atti degli Apostoli. Prima di tutto, la glossolalia, che esprimeva parole appartenenti a una molteplicità di lingue e impiegate per cantare le lodi di Dio (cf. At 2, 11). La folla richiamata dal fragore e sbigottita per quel fatto, era composta, sì, di "Giudei osservanti" che si trovavano a Gerusalemme per la festa: ma essi appartenevano a "ogni nazione che è sotto il cielo" (At 2, 5) e parlavano le lingue dei popoli nei quali si erano integrati sotto l'aspetto civile e amministrativo, anche se etnicamente erano rimasti Giudei. Ora quella folla, radunata intorno agli apostoli, "rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?»" (At 2, 6-8). A questo punto Luca non esita a delineare una sorta di mappa del mondo mediterraneo da cui provenivano quei "Giudei osservanti", quasi per opporre quella ecumene dei convertiti a Cristo, alla Babele delle lingue e dei popoli descritta dalla Genesi (Gen 11, 1-9), senza omettere di nominare accanto agli altri, gli "stranieri di Roma": "Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia (Minore), della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi" (At 2, 9-11). A tutti costoro Luca, quasi rivivendo il fatto avvenuto nella prima Tradizione cristiana, mette in bocca le parole: "Li udiamo (gli apostoli, Galilei di origine) annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" (At 2, 11).

6. L'evento di quel giorno fu certamente misterioso, ma anche molto significativo. In esso possiamo scoprire un segno della universalità del cristianesimo e della "missionarietà" della Chiesa: l'agiografo ce la presenta, ben consapevole che il messaggio è destinato agli uomini di "ogni nazione" e che, inoltre, è lo Spirito Santo che interviene per far sì che ciascuno capisca almeno qualcosa nella propria lingua: "Li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa" (At 2, 8). Oggi parleremmo di un adattamento alle condizioni linguistiche e culturali di ciascuno. Si può quindi vedere in tutto ciò una prima forma di "inculturazione", avvenuta per opera dello Spirito Santo.

7. L'altro fatto straordinario è il coraggio con cui Pietro e gli altri undici si "levano in piedi" e prendono la parola per spiegare il significato messianico e pneumatologico di quanto sta avvenendo sotto gli occhi di quella folla sbigottita (At 2, 14 ss.). Ma su questo fatto ritorneremo a suo tempo. Qui è bene fare un'ultima riflessione sulla contrapposizione (una storia di analogia "ex contrariis") tra ciò che avviene nella Pentecoste e ciò che leggiamo nel libro della Genesi sul tema della torre di Babele (cf. Gen 11, 1-9). Là siamo testimoni della "dispersione" delle lingue, e perciò anche degli uomini che, parlando in diverse lingue, non riescono più a comprendersi. Nell'evento della Pentecoste, invece, sotto l'azione dello Spirito, che è Spirito di verità (cf. Gv 15, 26), la diversità delle lingue non impedisce più di intendere ciò che si proclama in nome e a lode di Dio. Si ha così un rapporto di unione inter-umana, che va oltre i confini delle lingue e delle culture, prodotta nel mondo dallo Spirito Santo.

8. È un primo adempimento delle parole rivolte da Cristo agli apostoli nel salire al Padre: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).

"Ed è ancora lo Spirito Santo - commenta il Concilio Vaticano II - che in tutti i tempi "dà l'unità intima e ministeriale della Chiesa, e la fornisce dei diversi doni gerarchici e carismatici" (Lumen Gentium, 4), vivificando - come loro anima - le istituzioni ecclesiastiche ed infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito per la propria missione, da cui era stato spinto Gesù stesso" (Ad Gentes, 4). Da Cristo, agli apostoli, alla Chiesa, al mondo intero: sotto l'azione dello Spirito Santo può e deve svolgersi il processo della unificazione universale nella verità e nell'amore.

 


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