Missione e... impegno socio-politico |
Venegono Superiore, 25 febbraio 2007 LMC - Laici Missionari Comboniani
Missione e... impegno socio-politico
Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno». Siano desiderosi i fedeli «di poter esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio». Gaudium et spes - Concilio Vaticano II
Ciao! Ci piacerebbe impostare questo incontro un po' "in medias res": non come un ragionare su di un tema astratto e avulso dalla realtà ma vivendolo come un argomento vivo e reale, con cui confrontarsi ogni giorno, con il quale interrogarsi ogni volta che leggiamo il giornale.
Abbiamo individuato un po' di testi quali spunti per la riflessione:
Partendo da una riflessione sul senso e sulla tradizione storica del valore della carità, Pasini arriva a declinare le basi dell'impegno politico per il cristiano.
Uno schietto confronto sulle diverse anime della chiesa italiana così come emerse al recente convegno di Verona.
Cristiano sociali a convegno. Un'occasione per discutere della fine del partito unico dei cattolici.
Una riflessione di uno dei padri fondatori della teologia della liberazione; un esempio di coniugazione tra religione ed impegno sociale e politico.
Vi lasciamo con qualche spunto di riflessione per iniziare a confrontarci.
La missione si rivolge ai lontani; la politica è per natura rivolta ai vicini. La missione ha a cuore il bene del povero; la politica in Italia ha a cuore il bene comune dell'italiano. Qual è allora il senso del fare politica con spirito missionario? Quali sono i nostri "temi caldi" sui quali spenderci?
Buona lettura (non è obbligatorio leggerli tutti... ma almeno qualcuno) MIKI & SAMU
LA CARITÀ È ANCHE IMPEGNO POLITICO GIUSEPPE PASINI
Per gentile concessione dell'Autore, riproduciamo integralmente l'articolo apparso su «Italia Caritas», n. 5, maggio 1988, articolo che trae ispirazione dal seminario di studio sul tema «La carità tra solidarietà e impegno sociale e politico», organizzato dalla Pontificia Università Lateranense in collaborazione con la Caritas italiana. La carità, prima che un comando - diceva don Bruno Maggioni, relatore al convegno - è un evento storico, è l'intera storia di Cristo: Gesù, che è come la sintesi della storia della salvezza, ci ha mostrato come Dio ama il mondo e ci ha comandato di ripresentare la sua storia di amore, amandoci reciprocamente come lui ci ha amati. Per essere «ripresentazione» dell'amore di Gesù, l'amore del cristiano e della comunità cristiana per l'uomo deve avere lo stesso obiettivo - fare di tutti gli uomini una sola famiglia -, le stesse caratteristiche - l'universalità, la gratuità, la difesa dei deboli, la liberazione e la promozione di tutti ecc. - lo stesso metodo - il metodo non violento, il dialogo, il convincimento anziché l'imposizione -: in tal modo la carità del cristiano diventa messaggio, rivelazione, anche se inadeguata, di una realtà diversa, superiore, qual è l'amore infinito di Dio per l'uomo.
La carità è condivisione e denuncia Ma l'amore per l'uomo, come ripresentazione dell'amore di Dio, va calato storicamente e l'aiuto e il servizio vanno commisurati alle condizioni di bisogno, alle povertà e ai condizionamenti sociali, economici, politici che li generano. Amare il povero significa senz'altro accostarsi a lui con sentimenti di «compassione» sulla scia del buon samaritano, ma significa anche interrogarsi sul "perché" egli è povero, e impegnarsi - come dice il Concilio - a liberarlo «dallo stato di dipendenza altrui» e a farlo diventare «sufficiente a se stesso» (A.A.8). Già Papa Leone XIII, scrivendo la lettera enciclica «Rerum Novarum» aveva denunciato che i nuovi poveri - i proletari - erano «folla», che le cause della loro condizione andavano ricercate nelle «strutture economiche e sociali, e che di conseguenza la carità, intesa solo come assistenza e beneficenza, era risposta inadeguata alla povertà; essa doveva perciò saldarsi strettamente alla giustizia». Era lo Stato che doveva farsi carico di salvaguardare i diritti di tutti ed era compito di tutti i cristiani impegnarsi a costruire uno Stato capace di perseguire il bene comune. L'enciclica di Giovanni Paolo II - «Sollicitudo Rei Socialis» - dà a questa lettura delle povertà e delle ingiustizie un respiro mondiale; parla di peccati individuali e di «strutture di peccato» (n. 36). La «brama esclusiva dei profitto» e la «sete del potere» sono alla base di «meccanismi perversi» della «divisione in blocchi sostenuti dalle ideologie», del sacrificio di interi popoli.
La carità è difesa dell'uomo Cosa significa amare l'uomo in queste condizioni? Qual è la carità vera? La risposta viene da un messaggio dell'enciclica, là dove il Papa afferma «la realtà dell'essere umano... è fondamentalmente sociale» (29): l'«uomo, quindi, per essere amato veramente, va raggiunto in questa sua dimensione sociale così come storicamente si è configurata, in un contesto quindi in cui oggi vige "l'ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi, destinati originariamente a tutti" (50): è da questo contesto che l'uomo va aiutato a recuperare dignità e libertà». Mons. Alfredo Battisti, commentando al convegno, il passo dell'ultima enciclica, che parla di doverosa "opzione fondamentale per i poveri", afferma che essa, nel quadro del bene comune, oggi significa anche che: «La soddisfazione dei bisogni primari degli ultimi deve avere la precedenza sui beni di consumo e di lusso» e che «Gli investimenti produttivi di ricchezza devono essere finalizzati a creare posti di lavoro». Il presule richiamava poi, a conferma di ciò, un discorso di Giovanni Paolo II: «I bisogni dei poveri hanno priorità sui desideri dei ricchi; i diritti dei lavoratori sulla massimizzazione dei profitti; la produzione che concerne i bisogni sociali sulla produzione a scapi militari». (Discorso in Canada - 1984).
L'impegno sociale e politico è la verifica della carità Perché lo Stato procuri veramente il bene comune è necessario che tutti i cittadini vivano il dovere della partecipazione e che siano disponibili anche ad accettare i sacrifici che il bene comune comporta; ma soprattutto che si siano allenati, a livello personale e familiare, ad «alleviare la miseria dei sofferenti vicini e lontani non solo con il superfluo, ma anche con il necessario» (31). Così la carità vissuta nel quotidiano sostiene e alimenta la carità vissuta a livello sociale e politico; e l'impegno sociale e politico diventa a sua volta la verifica che la carità e la passione per l'uomo sono autentiche.
Tratto da:
Più Stato o meno Stato? Ancora polemiche sulla relazione di Diotallevi a Verona
A Verona, l'abbiamo scritto più volte, non è stato concesso molto spazio al confronto dei delegati. Questo perché il convegno ecclesiale è nato sotto una forte direzione "dall'alto" e anche perché (ma la seconda ragione è collegata alla prima) è stata la strutturazione stessa del convegno ad impedire un dibattito plurale. La prima giornata dei lavori ruotava soprattutto intorno alle relazioni introduttive ai 5 "ambiti" in cui si articolavano i lavori, mentre le attività di gruppo del pomeriggio e di mercoledì mattina sono state caratterizzate dalle testimoninanze dei delegati che hanno raccontato le esperienza delle rispettive diocesi piuttosto che fornire elementi per un confronto sulle linee pastorali che hanno trovato spazio soltanto mercoledì pomeriggio. Giovedì, poi, è stato il Papa a calamitare tutta l'attenzione. Nonostante sia stato scarso e poco profondo il coinvolgimento delle comunità diocesane, vi sono stati alcuni momenti in cui, durante il convegno, il confronto è stato piuttosto serrato. Uno di questi ha riguardato la relazione introduttiva (sul tema: "La questione della cittadinanza e la speranza cristiana oggi") del sociologo Luca Diotallevi ai lavori dell'ambito dedicato alla cittadinanza. Diotallevi ha sostenuto che, se nel novecento il concetto di cittadinanza assommato ai diritti civili e politici, anche i "cosiddetti diritti sociali" (lavoro, istruzione, salute, abitazione, informazione, ecc.) - in linea con la tendenza ad attribuire "sempre e più solo allo Stato il diritto e il potere di dare effettività a questa nuova e ben più estesa idea di cittadinanza" - per un altro verso è andata progressivamente in crisi "la realtà e l'idea stessa dello Stato come espressione organizzata della egemonia sociale del sistema politico". Si conclude così secondo Diotallevi "l'epoca se non l'epopea del progetto socialdemocratico, almeno nel suo preciso significato storico originale". "L'universalità indifferenziata delle proposte di cittadinanza offerte dallo Stato non soddisfa più una domanda di inclusione sociale espressa da persone che sempre meno tollerano di essere ridotte ad individui standardizzati, mentre, giorno dopo giorno, vengono pagati costi sociali ed esistenziali sempre più elevati alle illusioni (costitutive del progetto novecentesco del progetto di cittadinanza) di poter isolare ed anteporre i diritti e i doveri e di poter trascurare la questione dell'identità e delle tradizioni". Falliscono a ripetizione - ha proseguito - i progetti di cittadinanza tradizionali "che si propongono di ignorare il contributo che alla cittadinanza viene da un sentimento diffuso di identità e di appartenenza civile", o che degenerano in tirannide, tentando di ricondurre "al monopolio dello Stato la produzione e la regolazione dei processi di formazione delle identità e dell'appartenenza". Ma - sostiene il sociologo - il fatto di trovarsi a dover fare i conti con la crisi della cittadinanza statalista novecentesca e con una grave emergenza locale e globale dei livelli di cittadinanza non ci condanna ad alcuna nostalgia. In una città non priva di politica, ma non dominata dalla politica-in-forma-di-Stato, ci sono infatti ai nostri occhi, e per molte ragioni, maggiori possibilità di cittadinanza e non minori. Il modello a cui guardare, secondo Diotallevi, è quello anglosassone. Un modello che il sociologo cita espressamente parlando del rapporto tra Stato e religione: va abbandonato il modello di stato che "sacralizza i propri principi ed i propri testi, elabora ed impone la propria etica, da forma all'unico ed uniforme spazio pubblico dello Stato stesso completamente controllato", per guardare piuttosto al paradigma della "religions freedom il cui originario riferimento storico è il Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti", guidato dall'idea di "una società aperta e plurale, articolata in numerose istituzioni - incluse quelle religiose - reciprocamente capaci di controllo e di riequilibrio, di una società non senza politica ma senza Stato (stateless society)". Il primo emendamento fissa una coppia di principi: "nessuna integrazione di una organizzazione religiosa nel sistema politico - destabilishment of church - e affermazione del valore essenziale del contributo della religione alla vita pubblica - free excercise". Le tesi del sociologo hanno sollevato tra i delegati di Verona più dissensi che consensi, e soprattutto per quanto riguarda i passaggi in cui Diotallevi ha lamentato il fatto che i cattolici sono troppo "statalisti", perché ritengono (il 70% dei laici e il 49% dei preti) che sia lo Stato a dover assicurare il lavoro. Critiche che hanno portato Diotallevi, nel presentare i risultati dei lavori del suo "ambito", a riportare conclusioni piuttosto distanti dalle sollecitazioni iniziali. Sulle questioni sviluppate da Diotallevi, risponde un altro sociologo, Salvatore Rizza, docente di Politica Sociale all'università di RomaTre con una serie di riflessioni che Adista riporta qui di seguito.
La solidarietà, vera espressione di cittadinanza Salvatore Rizza
A Verona come due anni fa a Bologna in occasione della 44esima settimana sociale dei cattolici, sono emersi due modi di interpretare la vita delle comunità cristine: l'uno caratterizzato dalla modalità-necessità di una presenza della Chiesa nel mondo e l'altro dalla mediazione; il primo interpretato e rappresentato dal card. Ruini e dalla sua "politica", l'altro espresso dalla linea pastorale del card. Tettamanzi. Le relazione che hanno articolato le giornate veronesi e l'attiva partecipazione dei delegati in qualche modo hanno potuto riflettere questa "dualità". Forse sarebbe troppo riduttivo inforcare l'occhiale duale per "leggere" Verona: si rischierebbe di perdere la ricchezza delle sfumature e la portata dei contributi trasversali che non appaiono nella rigidità della dialettica di visioni che apparirebbero così contraddittorie e differenti. Premesso ciò, non si può non osservare la emblematicità della diversità di visione, oltre che di approccio e di stile, di due delle 5 relazioni che hanno introdotto gli ambiti di riflessione e di discussione in cui si sono articolate le 5 giornate di Verona: "la prospettiva sociale" di Savino Pezzotta e "la questione della cittadinanza e la speranza cristiana oggi" di Luca Diotallevi. Gli argomenti appaiono differenti ma è possibile individuare una sostanziale convergenza. La relazione di Pezzotta è incentrata sulla descrizione e sulla valutazione della situazione sociale del Paese in cui i cristiani sono chiamati ad essere presenti e a vivere. La relazione sulla cittadinanza si presenta molto ricca di riferimenti biblici e di testi ecclesiastici 8concilio, magistero ecclesiastico...). Manca a Diotallevi la ricchezza della esperienza e del "vissuto", ma fortemente sopperita da una visione ideologica ben determinata e desplicita. Ciò che colpisce è l'insistenza con cui si vuole definire la cittadinanza come "libera" da ogni influsso e da ogni intervento dello Stato. Fino al punto di escludere in maniera decisa forse un po' infastidita la "quota" di cittadinanza attinente ai diritti sociali (li chiama ripetutamente "cosiddetti"). Nessuno si aspettava una difesa ad oltranza dello Stato: è difficile trovare oggi dei difensori dello statalismo, e perciò sorprende l'insistenza, quasi a volere additare gli stessi cristiano che vi farebbero ricorso. Anch ei preti e i seminaristi non sarebbero immuno dal rischio di una mentalità statalista...salvo poi ad avvalersi del' otto per mille... (risorse destinate al sostentamento del clero). A differenza di Pezzotta, che ne riconosce il merito storico, Diotallevi denuncia l'intervento dello Stato anche nella fase storica in cui l'acquisizione e la difesa dei diritti sociali attraverso le politiche di Wellfare hanno salvaguardato la democrazia, il benessere e la stessa cittadinanza delle persone. La socialdemocrazia, esperienza tutta inberna alla cultura e alla storia dell'Europa, viene ritenuta essete stata una remora ed un freno per l'acquisizione della cittadinanza, che dovrebbe invece essere fondata unicamente sui diritti civili e sui diritti politici. Il "sociale", che per Pezzotta si intreccia indissolubilmente con la questione antropologica, per Diotallevi è temuto come "residuo subalterno del politico". Nella relazione di Pezzotta la società civile appare come un antidoto contro la società "disperata" che la globalizzazione del mercato e del economicismo ad ogni costo produce. Ed è la stessa società civile, ignorata dalla relazione di Diotallevi, che presenta i caratteri per una nuova semantica della politica: non è l'economia che dovrà dettare le regole della convivenza umana sottomettendo anche la funzione della politica. Giovanni Paolo II nella Centesimus annus promuove "l'impresa e il mercato", ma condanna anche, e con forza, il capitalismo e le sue conseguenze sulla vita dei cittadini, specie quelli indifesi e disagiati (cittadini anch'essi!). Nella relazione di Diotallevi manca un riferimento alla solidarietà e , francamente, sorprende. La solidarietà, tra l'altro richiamata come esigenza prioritaria dell'impegno dei cristiani dall'enciclica di Benedetto VI Deus caritas est, esprime in maniera esplicita il senso di responsabilità dei cittadini cristiani non solo come aspetto etico della vita, ma come dimensione essenziale della cittadinanza. Ma la solidarietà trova il suo "naturale" campo proprio nll'impegno sociale, dove, ricorda Pezzotta, produce nuovi livelli di partecipazione civile e politica (democrazia) attraverso l'applicazione della sussidiarietà che non è, come sembra sostenere Diotallevi, soltanto un'occasione per ridurre i poteri dello Stato e risolvere i conflitti di interesse (che, ovviamente, non sono solo quelli "famosi", ma anche quelli che coinvolgono in esiziali "cortocircuiti" amministrazioni "pubbliche", partiti politici, sindacati, ecc.). C'è di tutto nella relazione di Diotallevi: anche il progetto sociale dell'Europoa e il problema della laicità. Peccato che ambedue, come del resto ogni altro tema ed aspetto di esso, sono ricondotti in maniera ossessiva alla dottrina e alla esperienza americana. Come per lo Stato sociale, la storia e l'esperienza maturate in tanti secoli o decenni non hanno nessuna menzione e non vi si attribuisce alcun significato. Eppure sono sotto gli occhi di tutti le diversità che caratterizzano le due storie, il cui confronto non sempre risulta sfavorevole all'Europa, anzi! La laicità appare ristretta al solo confronto tra l'esperienza francese e la religious freedom degli Stati Uniti. Eppure è in corso in Europea (e anche in Italia) un acceso ed attento dibattito che vede coinvolti personaggi di grande spessore culturale (Habermas, Amato, Paglia, Scoppola, per citarne alcuni). Il riconoscimento del prularismo (anche religioso) non è indifferenza, ma rispetto reciproco e volontà di dialogo. L'impegni e la solidarietà per tutti i cittadini è vera espressione di cittadinanza, così come l'impegno per la pace e lo sviluppo nei Paesi che dalla globalizzazione e dalle deregolazione subiscono gli effetti di povertà e sfruttamento. La chiesa non è pacifista, ma pacificatrice, ricorda Diotallevi citando Giovanni Paolo II, il quale però ad alta voce, con un vero grido di dolore, condannò la guerra in Iraq pur se intesa come "azione imprescindibile". Si diceva all'inizio che la relazione di Luca Diotallevi è pregevole per la ricchezza di riferimenti biblici e per il frequente ricorso alla letteratura e all'esperienza spirituale della Chiesa. È vero, e di questo va preso atto! MA a volte sono le "assenze" che denotano certe scelte. Se ne segnalano tre: a) il testo biblico degli Atti degli Apostoli, che sono la più antica testimonianza "rivelata" della "speranza testimoniata" dalle prime comunità; b) la lettera a Diogneto, che in venti secoli è stata ritenuta un topos imprescindibile per la riflessione cristiana circa l'impegno dei cristiani nella città e le modalità di significare la loro presenza in essa nel rapporto con gli altri uomini-concittadini; c) l'enciclica di Benedetto VI Deus Caritas Est, che dedica l'intera seconda parte alla solidarietà dei cristiani impegnati nella costruzione della città, "laidamente" insieme agli altri uomini e dediti all'azione sociale nei confronti dei poveri ed ei bisognosi, come nobile testimonianza di carità.
Dalla Lettera di S. Daniele Comboni a mons. Luigi Ciurcia RELAZIONE STORICA SUL VICARIATO APOSTOLICO DELL'AFRICA CENTRALE
Cairo, 15 febbraio 1870
[2088] Siccome qualche giorno dopo il suo arrivo nel paese dei Bari avvenne un incidente, che avrebbe potuto avere le più funeste conseguenze per la Missione di Gondokoro, ma contro le supposizioni dei suoi nemici, tornò a suo vantaggio. Il Provicario, come i Missionari, fecero il loro dovere verso i cattolici europei che, dimenticando i principi della Fede e della morale cristiana, si erano traviati. Soprattutto quando questi disgraziati infierivano contro i poveri neri in mille maniere, i Missionari avevano protetto l'innocenza e la giustizia presso il governo turco nel Sudan che, istruito dall'eloquenza dei fatti e dalla condotta dei Missionari, aveva una grande stima e confidenza nel Provicario e la Missione.
Famiglia comboniana Atti Capitolari 1997 n.107
"Noi credenti e l'azzardo dell'impegno" Intervista di Marcella Marcelli a Mimmo Lucà su Aprile di Settembre 2003
I cattolici, e i cristiani in genere, tornano a interrogarsi sulle grandi questioni della politica? Il progressivo sgretolarsi dei partiti politici, a cominciare da quello cattolico, all'inizio degli anni Novanta, in un momento di grave decadimento della politica italiana sotto il profilo morale e nei suoi contenuti ideali, portò la gran parte dei cattolici impegnati nelle dimensioni della Chiesa locale, l'associazionismo democratico, il sindacato ecc., a fare un passo indietro rispetto alla politica per privilegiare l'impegno sociale. Le vicende che conosciamo, il tema della globalizzazione, la politica internazionale, un fortissimo e violento tentativo della destra di colpire il sistema di protezione sociale, i diritti sociali e del lavoro nel nostro paese, hanno riproposto il tema di una responsabilità politica più esplicita. Per questo negli ultimi due anni abbiamo assistito a un ritorno progressivo dei cattolici soprattutto giovani e giovanissimi, alla politica, spesso attraverso un impegno civile e sociale più organizzato collettivamente e meno affine a una dimensione testimoniale. Il problema della coerenza con i valori della fede in un contesto plurale e laico non pone il credente di fronte al duplice rischio del clericalismo e del suo opposto, il qualunquismo? Ci sono valori e principi di dignità, di sicurezza, di cittadinanza che hanno carattere universale e rappresentano un patrimonio per tutti coloro i quali esercitano responsabilità. Un orizzonte al fondo del quale c'è il bene comune. Su questo nucleo fondamentale di valori tutte le persone di buona volontà sono chiamate a confrontarsi e a organizzare responsabilmente le istituzioni sociali e politiche cercando continuamente punti di equilibrio tra sensibilità, culture e opzioni politiche diverse. Il tema della convivenza in società multiculturali, multietniche e multireligiose, è il tema del dialogo e della ricerca continua di una sintesi che presuppone riconoscimento e valorizzazione delle differenze. Formazioni politiche di diretta ispirazione cattolica hanno trovato collocazione in entrambi gli schieramenti del nostro panorama politico. Questa scelta di campo è sempre legittima? Il Concilio vaticano secondo ha sancito un principio fondamentale: il pluralismo delle opzioni politiche per i cattolici. Ovviamente sulle grandi questioni morali i vescovi possono esprimere un orientamento, ma la libertà del laico deve restare totale. Questo è legittimo. Da una parte formazioni politiche direttamente ispirate ai valori della dottrina cristiana (Ppi e Udc) e dall'altra l'ingresso in partiti "laici" come è accaduto al movimento dei Cristiano sociali con i Ds e, più recentemente, ai Popolari con la Margherita. C'è qualcuno che ritiene quest'ultima una scelta poco felice perché stempera troppo la fisionomia dell'impegno politico cristiano. Un fondo di ragione probabilmente c'è. Lo spirito del maggioritario favorisce la nascita di partiti (come i Ds) che rappresentino una sintesi di diverse sensibilità, tuttavia, anche se è vero che non è più il tempo del partito dei cattolici, è bene che le differenze si alimentino. Se ogni differenza non coltiva le proprie radici all'interno di una formazione politica, questa finirà per diventare un partito dell'amministrazione, senza capacità di analisi e di progettualità. Le diverse sensibilità devono quindi essere riconoscibili, il che non vuol dire dar vita alle "correnti". L'originalità della formula dei Ds sta proprio in questo. Mettendo in evidenza la presenza organizzata di una rete di cristiani dentro il partito, si segnala al mondo cattolico, delle associazioni, del volontariato, del sindacato, che è possibile, nella sinistra, l'esercizio di una responsabilità politica senza smarrire la propria identità, a patto che questa non si traduca in un'enclave confessionale, in una rendita di posizione. Solo così si può aspirare a dialogare con i cattolici che continuano a preferire l'impegno sociale a quello politico. Qualche anno fa, quando si discuteva del destino del Partito popolare, molti suoi membri facevano l'esempio dei Cristiano sociali colpevoli di essersi dispersi nei Ds. Non solo non ci siamo dispersi, ma rilanciamo, anche con il convegno di Assisi, la nostra sfida per la costruzione di una rete di rapporti su tutto il territorio utilizzando questa formula inedita del simbolo dei Cristiano sociali accanto a quello dei Ds. Oggi la situazione sembra rovesciata. Che fine hanno fatto i Popolari?
Dio non ha religioni La Teologia della liberazione spiegata da uno dei padri fondatori
Fratel Betto, al secolo Carlos Alberto Libanio Christo, è un frei domenicano di 62 anni, che da anni scrive libri e trattati. Amico fraterno di Lula, è entrato anche in politica per sostenerlo nel progetto sociale Fame Zero, che adesso però non segue più direttamente. Da qualche mese è uscito dal governo "per due motivi": "Perché volevo avere il tempo per scrivere e perché non condivido la politica economica del governo". Ha un fare gentile e un aspetto sereno e deciso. Il suo volto disteso è segnato da guizzi di profonda ironia che testimoniano la sagace intelligenza. Con semplicità ci ha spiegato la Teologia della Liberazione, cos'è, cosa ha dato alla gente più povera e miserabile, e perché ancora oggi, dopo quasi 40 anni, continui a sollevare tanti dubbi e preoccupazioni nella Chiesa di Roma.
Cos'è. "In America Latina la maggior parte della gente vive nella povertà e la maggioranza è di fede cristiana. Quindi la domanda principale di questa gente è: Dio vuole che noi rimaniamo in questa sofferenza? Oppure, come sta scritto nella prima pagina della Bibbia, ha creato il mondo in modo che fosse un giardino, un meraviglioso giardino con uccelli, fiori, acqua cristallina? La Teologia della liberazione, non è una teoria, non è un qualcosa nato nelle biblioteche, alle scrivanie, nelle accademie, nelle università religiose... No! E' la sistematizzazione dell'esperienza di fede dei poveri alla ricerca della loro liberazione".
Perché stupirsi? Secondo frei Betto, in un mondo d'oppressione, in cui vogliamo credere nel Dio della vita - e la vita è il dono maggiore di Dio - la Teologia della liberazione significa coniugare la visione della fede con l'anelito alla liberazione. "Penso che ogni cristiano che viva il mistero della fede con gioia, con senso di liberazione, che vive l'amore, l'impegno per la lotta per la giustizia, pratichi la Teologia della liberazione", precisa. "Una volta un vescovo mi chiese: "Ma perché cercare un'altra teologia quando c'è già la teologia della Chiesa di Roma?" E io gli risposi: "Nel Vangelo ci sono quattro teologie diverse, quella di Matteo, di Giovanni, di Luca e di Marco. E se ci sono già queste quattro visioni diverse di Gesù, queste quattro diverse visioni della chiesa, perché stupirsi proprio della Teologia della liberazione?".
La speranza. "Vivere la fede in America Latina è avere la speranza di superare la miseria e la povertà", continua il domenicano. "La gente incontra nella Bibbia, nella parola di Dio, il proprio alimento per capire meglio se stessi, per capire la lotta che sta vivendo e per trovare soluzioni. Faccio una metafora per spiegare meglio questo concetto. Per molta gente aprire la Bibbia è come aprire una finestra su interessanti fatti del passato. Nelle comunità ecclesiali di base, invece, la gente povera, quando apre la Bibbia, è come se guardasse se stessa in uno specchio, lo fa per riuscire a capirsi meglio, qui e ora". E per aiutare la gente a capire meglio le scritture, la vita di Gesù, nella prospettiva liberatrice, Betto ha scritto anche un libro "Uomo fra gli uomini", una vera e propria lettura popolare del Vangelo.
I cambiamenti. "Molti qui in Italia mi chiedono cosa sarà della nostra Teologia adesso, con Papa Ratzinger - racconta fratel Betto - Beh, devo dire che questa cosa ogni volta che vengo in Italia mi sconcerta: voi siete molto vicini al Papa, mentre noi in America Latina siamo molto vicini a Dio. Dovete capire, che molto spesso quello che avviene a Roma non ha molto riflesso nella Chiesa dell'America Latina. Anche le nomine di vescovi conservatori molte volte non provocano reazioni, perché c'è così tanto sfruttamento, così tanta sofferenza - tanto per dirne una nel mio Paese c'è ancora il lavoro in schiavitù - che tutto il dolore della gente parla più alto, parla direttamente a Cristo. Per questo la Teologia della liberazione nasce proprio in America Latina. E comunque, io non credo che il rinnovamento della Chiesa venga dall'alto, spero arrivi dal basso. Credo che lo Spirito Santo lavori dal basso. L'unica cosa che so - incalza - è che trent'anni fa era soltanto la Teologia della liberazione che parlava di debito estero, di colonialismo, di neoliberismo, che criticava l'imperialismo, la politica estera degli Stati Uniti. Adesso questi temi appaiono nei documenti finali di Giovanni Paolo II. Eppure era un papa che aveva tollerato la guerra di Bush in Iraq del 1991, e che poi è arrivato a condannare l'invasione dell'Iraq di Bush figlio. Sono solito dire, infatti, che la Teologia della liberazione è arrivata a Roma. Roma può pure non averne coscienza, ma è così. Se si pensa che il Papa ha mobilitato 150mila persone contro il G8 a Genova! E' esattamente quello che noi della Teologia della liberazione avremmo voluto fare". Poi conclude, accennando alle tante contraddizioni del Vaticano: "Giovanni Paolo II stesso aveva una contraddizione: era un uomo con la testa di destra e il cuore di sinistra, perché era molto ortodosso nella dottrina, ma molto sensibile ai temi sociali".
Ortodossia. "Gesù predicava il regno di Dio, ma purtroppo quello che è venuto dopo è la Chiesa", riprende e, riferendosi all'incontro della Gioventù di Colonia, sottolinea: "Il Papa ha ricordato l'importanza per i giovani di leggere il catechismo della Chiesa, ma io avrei preferito che avesse sottolineato l'importanza di leggere il Vangelo. Dobbiamo ricordare che Dio non ha religione. Non è tanto importante avere fede in Gesù, quanto avere la fede di Gesù. Il messaggio centrale di Gesù è non tanto quello di avere fede quanto quello di mettere in pratica l'amore liberatorio". Secondo frei Betto se si analizzano i quattro Vangeli ci sono principalmente due domande che vengono rivolte a Gesù. La prima è: ‘Signore, che devo fare per guadagnare la vita eterna?'. "Ecco - spiega il frate - mai questa domanda esce dalla bocca di un povero. Esce sempre da coloro che si sono assicurati la vita terrena e che quindi pensano ad assicurarsi anche l'al di là. È la domanda tipica dell'uomo ricco, che vuol sapere come poter comprare anche il paradiso. E tutte le volte che Gesù ascolta questa domanda si sente a disagio, irritato. E ha anche reagito in modo un po' aggressivo quando un ricco, nel porgli la domanda, lo adula apostrofandolo: ‘Buon maestro'. ‘Io non sono il maestro, il buon maestro è Dio', gli risponde Gesù. La seconda domanda che si incontra è invece: ‘Signore, come devo fare per avere una vita in questa vita?'. Ecco, questa viene solamente dalla bocca dei poveri. ‘Le mie mani sono inerti, hanno bisogno di lavorare. Sono cieco, ho bisogno di vedere. Sono paralitico, voglio camminare. Mio fratello è morto, vorrei vivesse. Mia figlia è malata, vorrei che guarisse'. I poveri chiedono a Gesù vita in questa vita. E a loro Gesù risponde sempre con misericordia e compassione. Perché lui stesso ha detto io sono venuto qui perché tutti abbiano vita, e una vita piena".
Tutto sbagliato. Per il teologo brasiliano, tutto il mondo in cui viviamo oggi è una grande offesa al progetto di Dio. Perché in nessun versetto della Bibbia sta scritto che la povertà è gradita agli occhi di Dio. La povertà è una maledizione. È frutto dell'ingiustizia. Per questo Gesù si pone dalla parte dei poveri e li chiama beati: li considera i protagonisti della conquista di una società in cui tutti veramente avranno una vita. "Dobbiamo riconoscere la presenza di Dio in tutte le tradizioni religiose. Eppure noi cristiani soffriamo del complesso di superiorità che ci fa pensare di essere migliori rispetto a tutte le altre confessioni. Ed è un vero e proprio peccato. I migliori sono coloro che amano come Gesù amava. Migliore era Francesco di Assisi, che si spogliò delle sue ricchezze per andare con i poveri". E per frei Betto era addirittura migliore Che Guevara, "uomo ricco che si è dedicato ai poveri. E non era un credente", precisa il frate. Poi aggiunge: "Sicuramente, quando il Che è salito al cielo Gesù gli avrà detto: ‘Sei il benvenuto. Io avevo fame e tu mi hai dato da mangiare, hai lottato per questo'. E lui avrà risposto: ‘Guarda Signore, io non ero credente, e non ti ho mai incontrato perché non ho mai messo piede in una chiesa'. E Gesù gli avrà risposto: ‘Ogni volta che hai lottato per i poveri, hai lottato per me'. L'importante - asserisce - è dunque che ognuno di noi ami per la nostra capacità di amare, solo così ci salveremo. La fede serve solo per capire questa dimensione di amore. Nella prima lettera di Giovanni si dice che Dio era amore. Chi ama conosce Dio. C'è molta gente che va in chiesa e non ama. Mentre chiunque ami conosce Dio, fa esperienza di Dio, perché Dio è amore". L'ideale dell'evangelizzazione secondo il teologo della liberazione è quando un giovane di 16/17 anni, davanti alla prima esperienza di amore riconosce che questa è anche esperienza di Dio. Non c'è un amore di Dio e un amore umano, tutte le forme di amore sono divine. "E questo lo sanno ben spiegare i poeti - conclude - Una volta in Nicaragua conobbi il poeta, che è ormai morto, José Coronel Utrecho. Era già molto vecchio, ma era ancora molto innamorato della moglie, Julia, alla quale aveva dedicato tutti i suoi poemi. Ecco, c'è una poesia in cui descrive la loro luna di miele. La prima notte di nozze, in albergo, aveva dato ordine di non essere disturbato per nessun motivo. Una volta pronto per il letto nuziale, una persona ha bruscamente bussato alla porta. Che succede? Si è chiesto. Ci sarà un incendio nell'hotel, eppur sono io quello incendiato. Apre la porta e si trova davanti Dio, che gli chiede: ‘Josè il letto è molto grande?', ‘Sì Signore venga pure, ci entriamo tutti e tre'. Ma il Dio gli risponde: ‘Josè, tre siamo già noi' e il poeta ribatte: ‘Signore non c'è problema, venite pure tutti e tre. Qui c'è posto per tutti'. E il poema termina con: ‘E' stata una notte di una grande orgia spirituale'."
Tratto da: http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idart=3567 |